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Recensione: Le Sirene – Incanto e seduzione

Recensione: Le Sirene – Incanto e seduzione

“Devo essere una sirena. Non ho paura delle profondità e ho una gran paura della vita superficiale.” (Anais Nin, Le quattro stanze del cuore)

Dal risvolto di copertina: “Le Sirene sono fra le più affascinanti ed enigmatiche figure dell’immaginario collettivo. La loro presenza in uno dei più celebri episodi dell’Odissea le colloca nel cuore del sistema mitico del mondo antico. La loro ibrida natura (di donne-uccello prima e di donne-pesce poi) le rende temute e rispettate creature che marcano il passaggio fra il mondo culturale e il mondo altro. Dotate di conoscenza speciale, ma anche mostri micidiali che annientano e divorano chi cede al loro canto, divengono nel cristianesimo una rappresentazione del richiamo sessuale che può condurre alla perdizione. La loro immagine, segnata da una latente misoginia, diventa nel romanticismo un’espressione della femme fatale che mina gli equilibri sociali. Nel Novecento viene invece rielaborata, in chiave per lo più giocosa, dal cinema e dall’industria dell’intrattenimento per poi insinuarsi nei meandri della società postmoderna, della cui liquidità diventa un simbolo”

Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Alcuni narrano che in origine le Sirene erano state graziose fanciulle, amiche di Persefone; quando Ade rapì la ragazza, Demetra si adirò con le sue compagne che non avevano saputo difenderla e le trasformò in uccelli. Non erano immortali, un giorno morirono di una fine tragica e violenta. Avevano ricevuto la profezia che sarebbero morte quando un navigante fosse riuscito a passare indenne accanto alla loro isola, sopravvivendo al loro canto malioso. Così dopo che Ulisse le ebbe beffate, si uccisero precipitandosi in mare. Omero descrive minuziosamente l’isola delle Sirene: davanti agli occhi stupefatti dei marinai compaiono prati ameni pieni di fiori, ma dietro si nascondono le ossa marcite degli uomini che si lasciarono incantare dal canto e furono uccisi. Ma cosa cantavano queste misteriose creature per incantare i marinai? Nessuno lo seppe mai dire, nemmeno Ulisse.”

Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume sulle Sirene è curato da Marxiano Melotti, professore di di Sociologia dei processi culturali e Sociologia del turismo all’Università Niccolò Cusano di Roma. Qui gli ultimi volumi pubblicati.

L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.

Il racconto del mito delle sirene
Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Il mito di Achille – L’ira funesta

Il mito di Achille – L’ira funesta

Il racconto del mito di Achille è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 19: Achille – Il guerriero vulnerabile.

Scoccò il secondo anno della guerra di Troia: giunse la primavera e i combattimenti ripresero. Nel primo scontro Achille invitò Ettore a farsi avanti ma il vigile Eleno gli trafisse il palmo della mano con una freccia scoccata da un arco d’avorio, dono d’amore di Apollo, e lo costrinse ad arretrare. Zeus stesso guidò al bersaglio la punta della freccia, e subito decise di dare un po’ di requie ai Troiani scoraggiati dalle incursioni dei Greci lungo le coste e dalla conseguente diserzione di certi alleati asiatici. Zeus colpì i Greci con una pestilenza e mise in urto Achille con gli altri suoi compagni. Quando Crise venne al campo per riscattare Criseide, Zeus indusse Agamennone a scacciarlo con ingiuriose parole; Apollo, invocato da Crise, si piazzò presso le navi e per giorni e giorni, incessantemente, scagliò le sue frecce tra i Greci. Gli uomini perirono a centinaia benché, come spesso accade, né re né principi fossero colpiti; al decimo giorno Calcante rivelò la presenza del dio. Per invito di Calcante, Agamennone, sia pure a malincuore, rimandò Criseide al padre con doni propiziatori, ma trovò presto un compenso a quella perdita togliendo Briseide ad Achille, che l’aveva avuta in sorte come schiava nella spartizione del bottino. Al che Achille, furibondo, dichiarò che non avrebbe più preso parte alla guerra; e sua madre Teti, indignata, interpellò Zeus, che le promise soddisfazione per Achille. Quando i Troiani si resero conto che Achille e i suoi Mirmidoni si erano ritirati dalla battaglia, ripresero animo e fecero un’audace sortita. Agamennone, allarmato, propose una tregua durante la quale Paride e Menelao si sarebbero battuti in duello per decidere la sorte di Elena e del tesoro rubato. Il duello tuttavia ebbe esito incerto perché Afrodite, quando vide che Paride stava avendo la peggio, lo avvolse in una magica nube e lo trasportò a Troia. Era allora incaricò Atena di rompere la tregua inducendo Pandaro, figlio di Licaone, a scoccare una freccia contro Menelao; al tempo stesso la dea diede a Diomede l’ispirazione di uccidere Pandaro e di ferire Enea e la madre sua Afrodite.

Agamennone, disperato, mandò Fenice, Odisseo, Aiace e due araldi alla tenda di Achille, con l’incarico di offrirgli, per placarlo, innumerevoli doni e la restituzione di Briseide (ancora vergine, come Agamennone era pronto a giurare), se avesse acconsentito a combattere ancora. Occorre qui spiegare che Crise, frattanto, aveva riportato all’accampamento greco sua figlia, che sosteneva di essere stata trattata con molta cortesia da Agamennone e desiderava rimanere con lui: essa era infatti incinta e più tardi diede alla luce Crise secondo, un bimbo la cui paternità era dubbia. Achille accolse i messaggeri con un gentile sorriso, ma rifiutò le loro offerte e dichiarò che l’indomani mattina sarebbe salpato per ritornare in patria. Il giorno seguente, tuttavia, dopo un’aspra battaglia durante la quale Agamennone, Odisseo, Euripilo e Macaone il chirurgo furono feriti, i Greci ripiegarono ed Ettore aprì una breccia nel loro muro. Incoraggiato da Apollo, Ettore si spinse poi verso le navi e nonostante l’aiuto dato da Poseidone ai due Aiaci e a Idomeneo, irruppe nelle linee greche. A questo punto Era, che odiava i Troiani, prese in prestito la cintura di Afrodite e indusse Zeus ad andare a letto con lei; questa astuzia permise a Poseidone di capovolgere le sorti della battaglia in favore dei Greci. Ma Zeus, accortosi di essere stato gabbato, rianimò Ettore che era stato intontito da Aiace con una grossa pietra, ordinò a Poseidone di allontanarsi dal campo di battaglia e rinfocolò il valore dei Troiani. Essi avanzarono di nuovo; Medone uccise Perifete, figlio di Copreo, e molti altri campioni. Perfino il Grande Aiace fu costretto a indietreggiare, e Achille, quando vide alzarsi le fiamme dalla nave di Protesilao incendiata dai Troiani, si scordò del suo rancore e incitò i Mirmidoni ad accorrere in aiuto di Patroclo. Questi aveva scagliato la lancia nel folto dei Troiani riuniti attorno alla nave di Protesilao e aveva trafitto Pirecmo, re dei Peoni. Allora i Troiani, scambiando Patroclo per Achille, fuggirono. Patroclo spense l’incendio, salvò la nave e abbattè Sarpedone. Benché Glauco cercasse di radunare i Lici per impedire che il corpo di Sarpedone fosse spogliato. Zeus permise che Patroclo inseguisse l’esercito nemico fino alle mura di Troia. Ettore fu il primo a ritirarsi, perché gravemente ferito da Aiace.

Patroclo frattanto incalzava da presso i nemici, e avrebbe conquistato Troia da solo se Apollo in gran fretta non fosse salito sulle mura respingendo per tre volte Patroclo con lo scudo, mentre questi tentava di dare la scalata. La battaglia si protrasse fino al calar della notte allorché Apollo, avvolto in una fitta nebbia, assalì Patroclo alle spalle e lo colpì con forza tra le scapole. Patroclo strabuzzò gli occhi, l’elmo gli cadde dal capo, la sua lancia andò in mille pezzi e lo scudo rotolò a terra; e Apollo con un sorriso maligno gli slacciò la corazza. Euforbo figlio di Pantoo vedendo Patroclo ridotto in quello stato, lo ferì senza timore che egli reagisse, e mentre Patroclo si allontanava barcollando, Ettore, ritornato sul campo di battaglia, lo finì con un solo colpo di lancia. Accorse Menelao e uccise Euforbo (che si dice, fra l’altro, si sia reincarnato in seguito nel filosofo Pitagora); poi ritornò alla sua tenda con le spoglie del nemico morto, lasciando che Ettore levasse a Patroclo l’armatura. Menelao e il Grande Aiace ritornarono sul posto e insieme difesero il cadavere di Patroclo fino al crepuscolo, quando riuscirono a portarlo in salvo presso le navi. Achille, avuta la triste notizia, si rotolò tra la polvere abbandonandosi a una crisi di disperazione. Teti entrò nella tenda del figlio recandogli una nuova armatura che comprendeva anche un paio di preziosi schinieri forgiati da Efesio. Achille diede subito di piglio alle armi, si riconciliò con Agamennone (che gli restituì Briseide intatta dicendo di averla voluta per puntiglio e non per desiderio) e uscì dalla tenda per vendicare Patroclo. Nessuno poté resistere alla sua furia. I Troiani ruppero le file e corsero verso lo Scamandro, dove Achille li divise in due gruppi, respingendone uno verso le mura della città e l’altro nelle acque del fiume. Il dio del fiume si precipitò su Achille con violenza, ma Efesio prese le difese dell’eroe e prosciugò le acque col calore di una fiammata improvvisa. I Troiani superstiti si rifugiarono in città come un branco di cerbiatti terrorizzati.

Quando infine Achille si trovò a faccia a faccia con Ettore e lo sfidò a duello, le due schiere nemiche arretrarono e rimasero a guardare attonite. Ettore voltò le spalle all’avversario e cominciò a correre attorno alle mura della città: con tale manovra sperava di stancare Achille che per molto tempo era rimasto inattivo e doveva dunque avere il fiato corto. Ma si sbagliava. Achille lo inseguì per tre volte attorno alle mura, sempre pronto a precederlo e a sbarrargli il passo se Ettore cercava rifugio presso una porta per ricorrere all’aiuto dei suoi fratelli. Infine Ettore si fermò, deciso a sostenere l’attacco, e subito Achille gli trapassò il petto e rifiutò di concedere il favore che Ettore morente implorava: che il suo corpo potesse essere riscattato per le esequie. Impossessatosi dell’armatura del morto. Achille gli tagliò la carne dietro i tendini dei talloni, passò strisce di cuoio nei fori e le legò al suo cocchio, poi incitati con la frusta Balio, Xanto e Pedaso, trascinò il cadavere verso le navi al piccolo trotto. La testa di Ettore, coi neri riccioli spioventi, sollevò una nube di polvere. Achille si occupò poi delle esequie di Patroclo. Quasi a placare il dolore per la morte di Patroclo, Achille si alzava ogni mattina e trascinava tre volte il corpo di Ettore attorno alla tomba dell’amico perduto. Tuttavia Apollo protesse il cadavere impedendo che si corrompesse o lacerasse e infine, per ordine di Zeus, Ermete guidò Priamo al campo greco col favore delle tenebre e indusse Achille ad accettare il prezzo del riscatto. In quella occasione Priamo si dimostrò molto magnanimo nei confronti di Achille, poiché lo trovò addormentato nella sua tenda e avrebbe potuto facilmente ucciderlo. Il prezzo del riscatto fu fissato in tanto oro quanto pesava il corpo di Ettore. I Greci portarono una bilancia dinanzi alle mura della città, posero il cadavere su un piatto e invitarono i Troiani a gettare oro sull’altro piatto. Quando già si era dato fondo al tesoro di Priamo e il greve corpo di Ettore ancora premeva il piatto della bilancia verso il basso, Polissena, che stava a guardare dalle mura, gettò giù i suoi braccialetti per completare il peso. Pieno di ammirazione, Achille disse a Priamo: «Tieniti il tuo oro; preferisco barattare il corpo di Ettore con Polissena. Dammela in sposa, e se restituirai Elena a Menelao, mi incaricherò di ristabilire la pace tra il mio popolo e il tuo». Ma a Priamo, per il momento, bastava riscattare il corpo di Ettore con l’oro. Promise tuttavia di dare Polissena in sposa ad Achille se egli avesse indotto i Greci ad andarsene senza Elena. Achille replicò che avrebbe fatto il possibile, e Priamo si portò via il cadavere del figlio.

ll mito di Achille, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Recensione: Achille – Il guerriero vulnerabile

Recensione: Achille – Il guerriero vulnerabile

“In qualche modo bisognerà pur morire, e allora facciamolo qui, almeno daremo a qualcuno la sua gloria, o qualcuno la darà a noi.” (Alessandro Baricco, Omero, Iliade)

Dal risvolto di copertina: “Oltre l’immagine classica di forza e bellezza, di invincibilità – se non fosse per il noto tallone – e di fascino, leggiamo in queste pagine di un Achille dalla storia complessa. Nato da un matrimonio combinato dagli dèi, quello di Peleo e Teti, venne cresciuto dal centauro Chirone, ma fu da sempre predestinato alla guerra e alla morte sotto le mura di Troia. Fu amato da tanti: dalla principessa Deidamia che gli diede il figlio Neottolemo, da Patroclo, l’amico più intimo, da Briseide, fatta schiava… anche d’amore. Senza dimenticare l’immortale madre, Teti, una divinità marina che da vicino seguì, per tutta la sua vita, le vicende del figlio, intervenendo, dove poteva, a suo favore. Dalle donne al campo di battaglia, l’indimenticabile e feroce sfida con Ettore e la condanna finale. Il tutto sotto il vigile controllo divino: un eroe che non sfuggì a ciò che gli dèi avevano scritto per lui.”

Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Generoso, efferato, istintivo, invincibile: Achille è un nodo di contraddizioni ma appunto per questo nessun altro personaggio di Omero è più grande ed esemplare di lui. ‘Io – dice in un passo dell’Iliade – odio chi ha una parola sulla bocca e un’altra nel cuore.’ il contrario di Ulisse (infatti i due non si amano) che è tutto astuzia e prudenza. In generale, Achille fu per i Greci il perfetto modello di vita eroica.”

Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Elena è curato da Tommaso Braccini, docente di filologia classica presso l’università di Torino. Qui gli ultimi volumi pubblicati.

L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.

Il racconto del mito di Achille – L’ira funesta.
Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Telegono, il figlio della Maga Circe

Telegono, il figlio della Maga Circe

La presentazione del volume Frammenti di Telegonia è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 14: Circe – La seduzione e la magia.

Care amiche, cari amici, a conclusione dei post su Circe, siamo molto felici di presentarvi il primo volume nella collana ANONIMO DI CHIO della Casa Editrice Ericlea, che parla proprio del figlio che la Maga Circe ha avuto assieme a Odisseo, che tanto spazio ha nella profezia sul futuro del re di Itaca, profezia pronunciata da Tiresia nell’Ade (vedi qui, se non ricordi l’episodio).

Lasciamo la parola al curatore della collana, il Dr. phil. I Andreas Barella, che ci presenta la genesi di questo progetto. Ringraziamo la Casa Editrice per il permesso di pubblicare l’estratto.

DALLA PREFAZIONE AL VOLUME: “Nella primavera di un paio di anni fa partii in vacanza con un amico. Si trattava di un viaggio di svago per ridonare linfa a un’amicizia da troppo tempo negletta. Ma era anche un viaggio di studio, di ricerca di immagini e atmosfere mitologiche. La meta era il Mar Egeo e le sue isole, soprattutto quelle orientali al confine con la Turchia. La scoperta dei quaderni all’origine di questo libretto è avvenuta grazie a un incontro fortuito sull’isola di Chio, la supposta terra natale di Omero. Una anziana signora ci ospitò nella sua casa dopo che eravamo stati colti dalla notte nell’entroterra durante una gita fra i monasteri che punteggiavano le colline. In gioventù la donna era emigrata in Inghilterra e parlava un po’ di inglese. Morto il marito era tornata sulla sua isola, nell’antica casa di famiglia dove ci ospitava con squisita gentilezza e generosità.

Ci mostrammo appassionati di mitologia. Colpita dal nostro amore per Omero ci narrò di un curioso personaggio di cui le parlava la nonna. Un viaggiatore, forse inglese forse prussiano, che sua nonna chiamava in turco Deli Amca, “il vecchio pazzo” e che proprio in quella casa aveva vissuto e dove, dopo lunghi incontri con anziani narratori dell’isola e della terraferma vicina, aveva riempito una serie impressionante di quaderni. Incuriositi le chiedemmo di cosa parlassero. Lei ci rispose che si trattava di storie che il vecchio raccontava la sera a sua nonna e a sua madre bambina, accompagnandole con la lira. Chiedemmo che fine avessero fatto quaderni e strumento e lei allargò le braccia, rispose che non sapeva se esistessero ancora. Da bambina ricordava di averli visti accantonati su vecchi scaffali in una piccola stanza abbandonata.

La mattina dopo andammo a cercarli. La camera del vecchio c’era ancora: nessuna traccia della lira ma il locale era pieno di quaderni di pessima qualità, ingialliti. Alcuni in buono stato, altri rovinati dall’umidità del contatto con i muri, altri si intravvedevano sotto un sottile strato di intonaco, utilizzati chissà quando e da chissà chi per isolare la parete meno esposta al sole, altri ancora erano stipati in due valige di pelle che dovemmo forzare in quanto le cerniere erano talmente arrugginite da impedire l’apertura. Anche se parziale, si trattava pur sempre di una scoperta straordinaria: 108 quaderni di 96 pagine ciascuno (82 in buone condizioni, 16 ricuperabili, 10 in stato pessimo) e il ricordo della nostra squisita ospite di almeno altrettanti fascicoli finiti chissà dove e che stiamo tentando di rintracciare.

Nei tomi scritti in esametri in greco antico, con ampi inserti in greco moderno e in turco, con note marginali in inglese, in tedesco e in francese, vergati con una calligrafia minuta e precisa, centinaia di episodi mitologici collegati uno all’altro da migliaia di rimandi numerici specifici (inseriti a margine nella forma: n° volume, n° pagina) ad altri episodi in una rete infinita di possibilità di narrazione.

Chi era questo Pseudo-Omero, Deli Amca, il vecchio pazzo o, come lo abbiamo chiamato in copertina, questo Anonimo di Chio? Per ora possiamo solo fare supposizioni. La nostra idea è che si trattasse di un erudito appassionato di mitologia che, forse a seguito della scoperta delle rovine di Troia e di Micene da parte di Heinrich Schliemann negli anni 70 del 1800, si fosse trasferito in Grecia e abbia appreso (da chi? dove?) a narrare oralmente le storie in seguito raccolte nei quaderni. Il vecchio si era forse ritirato a Chio per mettere in forma scritta i racconti uditi nel suo peregrinare. Filologi e mitologi stanno, con meraviglia, approfondendo lo studio dei fascicoli. Una versione critica vedrà verosimilmente la luce nei prossimi anni. I manoscritti sono a disposizione, presso la casa editrice, degli esperti interessati.

Non volevamo però attendere così a lungo per presentare queste storie. Quella che pubblichiamo nelle prossime pagine, senza nessuna velleità filologica, è una libera traduzione e arrangiamento di alcuni frammenti di una vicenda appassionante e che ha come protagonista Telegono, il “nato lontano da casa”, il figlio di Odisseo e della maga Circe. Le sue vicende sono pescate un po’ qua e un po’ là nei quaderni, distillate e senza rinvii ad altre storie. Nei manoscritti vi sono circa 200 rimandi che collegano la storia di Telegono a vicende note e meno note del corpus mitologico classico. A volte abbiamo dovuto scegliere una versione a scapito di una o due altre, in alcune occasioni le indichiamo alla fine del capitolo corrispondente; non sempre però, in modo da non appesantire la lettura. Si tratta, appunto, di frammenti. Come di frammenti si parla quando si cita la Telegonia di Eugammone di Cirene, composta nel sesto secolo avanti Cristo: che il nostro cantore abbia utilizzato la narrazione perduta di questa opera? Anche questo è un mistero che attende risposta.

Un’ultima considerazione: abbiamo deciso per una traduzione in prosa per rendere maggiormente accessibile il testo, cercando di mantenere il ritmo e lo stile poetico dei quaderni. Ci siamo imbattuti in diverse contraddizioni che lasciamo ai lettori individuare, come in una specie di caccia al tesoro: si tratta principalmente di differenze negli appellativi degli dèi e dei protagonisti, dovuti a fonti diverse che poi durante la narrazione orale venivano presumibilmente adeguati dal narratore, ma che nei quaderni presentano incongruenze anche notevoli. Un esempio è l’appellativo di Telegono, che viene chiamato “giovane” in episodi verso la fine delle sue avventure. Abbiamo però deciso di mantenere queste contraddizioni in quanto proprie del racconto orale. In futuro (maggiori dettagli nelle note tra i capitoli e alla fine del volume) presenteremo anche altri racconti e cicli narrativi contenuti in questo meraviglioso regalo che il Destino, o la Musa, ci ha voluto destinare.” (COPYRIGHT ©2019 CASA EDITRICE ERICLEA e ANDREAS BARELLA. Questo testo può essere utilizzato solo citando la fonte e l’autore.)

Il volume è acquistabile qui.
La recensione del volume di Ludovico Baù.
Il sito della Casa Editrice Ericlea.
Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Il mito di Circe

Il mito di Circe

Il racconto del mito di Circe è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 14: Circe – La seduzione e la magia.

Con l’unica nave rimasta Odisseo si diresse verso est e dopo un lungo viaggio raggiunse Eea, l’isola dell’alba, dove regnava la dea Circe figlia di Elio e di Persa e dunque sorella di Eete, il feroce re della Colchide. Circe era maga esperta in ogni sorta di incantesimi, ma nemica del genere umano. Quando si estrasse a sorte chi dovesse rimanere di guardia sulla nave e chi dovesse scendere a terra, toccò a Euriloco di esplorare l’isola con altri ventidue compagni. L’isola era ricca di querce e di altri alberi d’alto fusto e dopo aver vagato tra i boschi gli uomini giunsero infine al palazzo di Circe che sorgeva in un’ampia radura al centro dell’isola. Lupi e leoni erravano lì attorno, ma anziché assalire Euriloco e i suoi compagni, affettuosamente li lambirono con la lingua, ritti sulle gambe posteriori. Li si sarebbe detti esseri umani e tali erano infatti, trasformati in bestie dagl’incantesimi di Circe.

Circe sedeva nella sala del palazzo e cantava, intenta al suo telaio. Quando udì il richiamo di Euriloco, si affacciò sulla soglia e con un sorriso invitò tutti a cenare alla sua tavola. Gli uomini accettarono con piacere, e il solo Euriloco, insospettito, indugiò all’esterno, spiando dalle finestre. La dea posò sulla mensa formaggio, orzo, miele e vino; ma i cibi contenevano tarmaci maligni e non appena i marinai ebbero mangiato i primi bocconi la dea li percosse con una verga e li trasformò in maiali. Con maligno sorriso li spinse allora nel porcile, gettò loro una manciata di ghiande e di corniole e li lasciò, richiudendo la porta.

Euriloco ritornò alla nave piangendo e narrò ogni cosa a Odisseo che sguainò la spada e partì per recare aiuto agli sventurati compagni, pur non avendo stabilito un piano ben chiaro nella sua testa. Con grande sorpresa incontrò il dio Hermes che lo salutò cortesemente e gli offrì un talismano per rendere inefficaci gl’incantesimi di Circe: un bianco fiore profumato e dalla nera radice, chiamato moli, che gli dei soltanto possono riconoscere e raccogliere. Odisseo accettò grato il dono e, proseguendo il cammino, fu infine accolto da Circe. Quando egli ebbe mangiato il cibo affatturato, la maga gli batté la verga sulla spalla e gli ordinò: «Vai dunque a raggiungere i tuoi compagni!» Ma poiché in segreto aveva fiutato il magico fiore. Odisseo non subì la metamorfosi e subito balzò in piedi sguainando la spada. Circe cadde ai suoi piedi piangendo. «Risparmiami», gridò, «e dividerai il mio letto e regnerai sull’isola al mio fianco». Ben sapendo che le maghe possono indebolire e a poco a poco uccidere i loro amanti, Odisseo volle che Circe giurasse solennemente di non tramare nuovi inganni. Circe giurò su tutti gli dei e dopo aver preparato per Ulisse un bagno tiepido, offertogli vino in coppe dorate e una cena squisita, si preparò a trascorrere con lui la notte in un letto dalle coltri purpuree. Tuttavia Odisseo si rifiutò di accettare le sue amorose carezze finché ella non avesse liberato i suoi compagni e tutti gli altri marinai tramutati in belve prima di loro. Quando ciò fu fatto, ben volentieri Odisseo rimase in Eea finché Circe gli ebbe partorito tre figli, Agrio, Latino e Telegono.

Venne il giorno in cui Odisseo chiese di ripartire e Circe gli concesse di lasciarla. Prima però doveva scendere nel Tartaro e interrogare Tiresia il veggente che avrebbe profetizzato ciò che lo attendeva in Itaca, se mai vi fosse giunto, e negli anni seguenti. «Lascia che il Vento del Nord gonfi le tue vele», disse Circe, «finché giungerai al fiume Oceano e al sacro bosco di Persefone, denso di bianchi pioppi e di antichi salici. Là dove il Flegetonte e il Cocito confluiscono nell’Acheronte, scava una fossa e sacrifica un giovane ariete e una pecora nera (che io stessa ti fornirò) a Ade e a Persefone. Lascia che il sangue scorra nella fossa e mentre attendi l’arrivo di Tiresia tieni lontane con la tua spada tutte le altre ombre. Al solo Tiresia permetterai di bere quanto voglia e ascolterai con attenzione i suoi consigli».

Odisseo costrinse i suoi uomini a imbarcarsi, poiché a malincuore essi lasciavano l’isola di Eea per recarsi nella terra di Ade. Circe fece spirare un vento favorevole che li spinse verso il fiume Oceano e gli sperduti limiti del mondo dove i Cimmeri avvolti nella nebbia, cittadini del Perpetuo Crepuscolo, vivono senza godere della luce del sole. Quando avvistarono il bosco di Persefone, Odisseo sbarcò e fece esattamente ciò che Circe gli aveva consigliato di fare. La prima ombra ad apparire sui limite della fossa fu quella di Elpenore, uno dei marinai di Odisseo che pochi giorni prima, addormentatosi ubriaco sul tetto del palazzo di Circe, ne era rotolato giù e si era ucciso; Odisseo che, lasciata Eea in gran fretta s’era accorto troppo tardi dell’assenza di Elpenore, gli promise ora solenni esequie. «Se penso che tu sei giunto qui a piedi più rapidamente di noi con la nave!» esclamò. Ma non permise che Elpenore bevesse un solo sorso di sangue, sordo alle sue imploranti suppliche.

Una frotta d’ombre si riunì frattanto attorno alla fossa, uomini e donne d’ogni età, compresa la madre di Odisseo, Anticlea. Ma egli non volle che alcuno bevesse prima di Tiresia. E Tiresia infine apparve, bevve avidamente il sangue e ammonì Odisseo a tenere sotto stretto controllo i suoi uomini non appena avessero
avvistato la Sicilia, perché non fossero tentati di rubare la mandria del Titano solare Iperione. In Itaca, poi, egli doveva attendersi ogni sorta di guai, e benché potesse sperare di vendicarsi dei mascalzoni che stavano dilapidando i suoi beni nell’isola natia, i suoi viaggi non sarebbero finiti. Doveva prendere un remo e caricarselo su una spalla e camminare nell’entroterra finché raggiungesse una regione dove gli uomini non mangiavano carne salata e ignoravano le cose del mare tanto da scambiare il remo per un ventilabro. Sacrificando allora a Posidone, avrebbe potuto ritornare a Itaca e vivere sereno fino a tarda età. Ma la morte gli sarebbe giunta dal mare.

Ringraziato Tiresia e promessogli il sangue di un’altra pecora nera al suo ritorno in patria, Odisseo permise a sua madre di placare la sete. Essa gli diede notizie di Itaca ma tacque discretamente sul conto dei pretendenti di Penelope. Quando infine si congedò, le ombre di molte regine e principesse si strinsero attorno alla fossa per lambire il sangue. Odisseo fu onorato di conoscere personaggi famosi come Antiope, Giocasta, Doride, Pero, Leda, Ifimedea, Fedra, Procri, Arianna, Mera, Climene ed Erifile.

Si intrattenne poi con un gruppo di vecchi compagni: Agamennone, che gli consigliò di sbarcare a Itaca in segreto; Achille, che si rallegrò all’udire notizie delle imprese di Nettolemo, e il Grande Aiace, che ancora gli serbava rancore e si allontanò cupo in volto. Odisseo vide inoltre Minosse che giudicava le ombre, Orione intento a cacciare, Tantalo e Sisifo torturati ed Eracle (o meglio l’ombra di Eracle, poiché Eracle stesso banchettava tra gli dei immortali) che lo commiserò per le sue fatiche, paragonandole alle proprie.8

Odisseo ritornò dunque a Eea, dove diede sepoltura al corpo di Elpenore e piantò un remo sul tumulo in suo ricordo. Circe lo accolse sorridendo: «Quale ardire hai mostrato visitando la terra di Ade!» disse. «Una sola morte spetta alla maggior parte degli uomini, ma tu ora ne avrai due!» Lo avverti poi che sarebbe passato presso l’Isola delle Sirene, le cui belle voci incantano i marinai. Codeste figlie di Acheloo o di Forci e della Musa Tersicore o Sterope, figlia di Portaone, avevano volti di fanciulle ma zampe e piume d’uccello, e a proposito di questa loro caratteristica si raccontano varie storie: a esempio, che esse stavano giocando con Core quando Ade la rapì e che Demetra, irata perché non erano accorse in aiuto di sua figlia, fece spuntare penne sui loro corpi e ordinò: «Andate a cercare Core in tutto il mondo!» Oppure che Afrodite le trasformò in uccelli perché orgogliosamente rifiutavano di sacrificare la loro verginità a dei o a uomini mortali. Non avevano più la possibilità di volare dal giorno in cui le Muse le avevano sconfitte in una gara di canto, strappando poi loro le ali per farsene delle corone. Ora sedevano cantando in un prato, tra le ossa sbiancate dei marinai che avevano trascinato alla morte. «Tura con cera le orecchie dei tuoi uomini», consigliò Circe a Odisseo, «e se davvero sei curioso di udire i canti delle Sirene fatti legare dai marinai all’albero maestro e inducili a giurare di non scioglierti, per quanto tu li supplichi o li minacci». Quando Odisseo si congedò da lei, Circe lo mise in guardia contro altri pericoli che lo attendevano e infine egli salpò, di nuovo favorito dal vento.

ll mito di Circe, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il racconto del mito del figlio di Circe, Telegono.

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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