Category Archives: Dei e Dee

Brevi descrizioni di dee e dèi delle varie mitologie.

I vari miti sulle creature del mare

I vari miti sulle creature del mare

Le cinquanta Nereidi, gentili e benefiche assistenti della dea del mare Teti, sono sirene, figlie della Ninfa Doride e di Nereo, un profetico vecchio marino, che ha il potere della metamorfosi. Pare che le cinquanta Nereidi fossero un collegio di cinquanta sacerdotesse della Luna, i cui magici riti assicuravano pesca abbondante. I Forcidi, loro cugini, figli di Ceto e di Forcio, un altro saggio vecchio del mare, sono Ladone, Echidna e le tre Gorgoni che abitano in Libia; le tre Graie; e, secondo taluni, anche le tre Esperidi.

Le Gorgoni si chiamavano Stimo, Furiale e Medusa, un tempo tutte e tre bellissime. Ma una notte Medusa si giacque con Poseidone, e Atena, infuriata perché si erano accoppiati in uno dei suoi templi, tramutò la Gorgone in un mostro alato con occhi fiammeggianti, denti lunghissimi dai quali sporgeva la lingua, unghielli di bronzo e capelli di serpenti: il suo sguardo faceva impietrire gli uomini. Quando, più tardi, Perseo decapitò Medusa, e i figli di Poseidone, Crisaore e Pegaso, balzarono fuori dal suo cadavere, Atena ne applicò la testa alla sua egida; ma altri dicono che quell’egida fu fatta con la pelle di Medusa, che Atena le strappò di dosso. Le Gorgoni rappresentavano la triplice dea e portavano maschere profilattiche, con occhi fiammeggianti e la lingua che sporgeva fra i denti lunghissimi, per spaventare gli estranei e allontanarli dai loro misteri. Gli omeridi conoscevano soltanto una Gorgone che vagava come ombra nel Tartaro (Odissea XI 633-35) e la cui testa, che terrorizzò Odisseo (Odissea XI 634), spiccava sull’egida di Atena, indubbiamente per ammonire la gente a non volere scrutare nei divini misteri nascosti dietro l’egida stessa. I fornai greci usavano dipingere una testa di Gorgone sui loro forni per impedire ai curiosi di aprire lo sportello, rischiando così di rovinare il pane in cottura con un soffio improvviso di aria fresca.

Crisaore era il segno del primo quarto di luna di Demetra, cioè del falcetto d’oro; le compagne della dea lo reggevano in mano quando lo rappresentavano nelle cerimonie. Atena, in questa versione, è la collaboratrice di Zeus, rinata dalla sua testa, e traditrice dell’antica religione. Le tre Arpie, considerate da Omero come personificazione dei venti di tempesta (Odissea XX 66-78), rappresentavano la Alena primitiva, cioè la triplice dea nella sua veste di distruggitrice. Tali erano anche le Graie o le Grigie, come dimostrano i loro nomi Enio («guerresca»), Penfredo («vespa») e Dino («terribile»); la leggenda del loro unico occhio e del loro unico dente deriva dalla interpretazione erronea di qualche dipinto sacro e il cigno nella mitologia europea è l’uccello della morte.

I nomi delle Gorgoni, Steno («forte») Euriale («ampio-vagante») e Medusa («astuta»), sono appellativi della dea-Luna. Gli orfici chiamavano «testa di Medusa» la faccia della luna. Le Graie sono bianche di carnagione e simili a cigni, ma con i capelli grigi fin dalla nascita e un solo dente e un solo occhio in comune. Si chiamano Enio, Penfredo e Dino.

Le tre Esperidi, chiamate Espera, Egle ed Eriteide, vivono nel lontano Occidente, nel giardino che la Madre Terra donò a Era. Taluni le dicono figlie della Notte, altri di Atlante e di Esperide, figlia di Espero; esse cantano dolcemente. I nomi delle Esperidi, descritte come figlie di Ceto e Forco, o della Notte o di Atlante il Titano che regge il cielo nell’estremo Occidente, si riferiscono al tramonto. A quell’ora il cielo si tinge di verde, di giallo e di rosso e ricorda un albero di mele carico di frutti; e il Sole, tagliato dalla linea dell’orizzonte come una mela purpurea, cala verso la morte nelle onde dell’Occidente. Quando il sole è tramontato appare Espero. Questa stella era sacra alla dea dell’amore Afrodite. Se si dimezza trasversalmente una mela, si può vedere in ogni metà una stella a cinque punte.

Echidna era per metà una bellissima donna, per metà un serpente dalla pelle maculata. Viveva un tempo in una grotta profonda tra gli Arimi; mangiava uomini crudi e procreò mostri orrendi a suo marito Tifone; ma Argo dai cento occhi la uccise nel sonno. Echidna generò orrendi figli a Tifone, e cioè Cerbero, il cane infernale a tre teste; l’Idra, serpente acquatico dalle molte teste che viveva a Lerna; la Chimera, capra che sputava fiamme, con la testa di leone e la coda di serpente; e Orione, il cane a due teste di Gerione, che si giacque con la propria madre e generò in lei la Sfinge e il Leone Nemeo.

 

I vari miti sulle creature del mare, riassunti dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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Il mito di Tiche e il mito di Nemesi

Il mito di Tiche e il mito di Nemesi

Tiche è la figlia di Zeus ed egli le diede il potere di decidere quale sarà la sorte di questo o quel mortale. A taluni essa concede i doni contenuti nella cornucopia, ad altri nega persino il necessario. Tiche è irresponsabile delle sue decisioni e corre qua e là facendo rimbalzare una palla per dimostrare che la sorte è cosa incerta. Ma se capita che un uomo, che essa abbia favorito, si vanti delle sue ricchezze né mai ne sacrifichi parte agli dèi, né se ne serva per alleviare le pene dei suoi concittadini, ecco che l’antica dea Nemesi si fa avanti per umiliarlo. Nemesi, che abita a Ramnunte in Attica, porta un ramo di melo in una mano e una ruota nell’altra, e in capo una corona adorna di cervi; uno scudiscio pende dalla sua cintura. Essa è figlia dell’Oceano e la sua bellezza è paragonabile a quella di Afrodite. Taluni dicono che Zeus un giorno si innamorò di Nemesi e la inseguì per terra e per mare. Benché essa mutasse continuamente forma, egli riuscì infine a violarla assumendo l’aspetto di un cigno, e dall’uovo che Nemesi depose nacque Elena, causa della guerra di Troia.

Tiche («fortuna») come Diche ed Edo (personificazioni della Legge Naturale o Giustizia, e della Vergogna) è una divinità artificiale inventata dai primi filosofi. Nemesi («debita esecuzione») era stata la dea-Ninfa della Morte e della Vita, cui gli stessi filosofi diedero un nuovo aspetto affidandole un controllo morale su Tiche. La ruota di Tiche rappresentava in origine l’anno solare come indica il suo nome latino. Fortuna (da vortumna, «colei che fa volgere l’anno»). Quando la ruota aveva compiuto mezzo giro, il re sacro, raggiunto l’apice della sua buona sorte, doveva morire (e il suo destino era preannunciato dai cervi di Atteone presenti nella corona di Nemesi), ma quando la ruota aveva compiuto l’intero giro, il re si vendicava del rivale che l’aveva soppiantato. Lo scudiscio era usato nei tempi antichi per la flagellazione sacra, che aveva lo scopo di far fruttificare gli alberi e maturare le messi, mentre il ramo di melo era il lasciapassare del re per i Campi Elisi. La Nemesi che Zeus inseguì non era la personificazione filosofica della giustizia degli dèi, ma la dea-Ninfa originaria, il cui nome più comunemente usato fu Leda.

Nel mito pre-ellenico, è la dea che insegue il divino paredro e, benché questi si sottoponga alle trasformazioni stagionali, essa si trasforma a sua volta e infine lo divora al solstizio d’estate. Nel mito ellenico le parti sono rovesciate: la dea fugge, muta d’aspetto, ma il re la insegue e infine la viola, come nella leggenda di Zeus e di Meti o di Peleo e Teti. Probabilmente queste trasformazioni rituali erano indicate sui raggi della ruota di Nemesi; ma nelle Ciprie omeriche si parla soltanto di un pesce e di «vari animali». «Leda» è un’altra forma di Latona (in greco Letò), che fu inseguita da Pitone, e non da Zeus. I cigni erano sacri alla dea (Euripide, Ifigenia in Tauride) sia per le loro bianche piume, sia per la loro formazione di volo a V, che è un simbolo femminile, sia perché, a mezza estate, si dirigono a nord per accoppiarsi in terre ignote e si pensò che portassero con sé l’anima del re defunto. La Nemesi dei filosofi era onorata a Ramnunte dove, secondo Pausania (I 33 2-3) il comandante in capo dei Persiani, che si preparava a innalzare un trofeo marmoreo per celebrare la sua conquista dell’Attica, fu costretto a ritirarsi quando gli giunse notizia della sconfitta navale di Salamina; il marmo fu allora usato per farne una statua della dea-Ninfa locale. Nemesi. Si suppone che da quel giorno in poi tale dea-Ninfa divenne la personificazione della «Vendetta Divina» anziché della «debita esecuzione» dell’annuale dramma di morte. Dai tempi di Omero in poi, invece, nemesis aveva significato quel caldo sentimento umano che suggerisce di pagare ciò che si deve e di portare a termine il proprio compito. Ma Nemesi, la dea-Ninfa, aveva l’appellativo di Adrastea («ineluttabile»: Strabone, XIII 1 13), e Adrastea era pure il nome della nutrice di Zeus, una Ninfa del frassino; e poiché le Ninfe del frassino e le Erinni erano sorelle, nate dal sangue di Urano, ciò potrebbe spiegare come mai Nemesi finì col personificare la vendetta. Il frassino era uno degli aspetti in cui la dea si trasformava stagionalmente ed era un albero molto importante per i pastori suoi devoti, poiché era associato con i temporali e con il mese in cui nascevano gli agnelli, il terzo dell’anno sacro. Nemesi è detta figlia di Oceano, poiché come dea-Ninfa dal ramo di melo, essa rappresentava anche Afrodite nata dal mare, sorella delle Erinni.

Il mito di Tiche e Nemesi, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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Il mito di Zagreo

Il mito di Zagreo

Zeus generò in segreto suo figlio Zagreo in Persefone, prima che essa fosse condotta nell’Oltretomba da suo zio Ade. Egli affidò ai Cureti cretesi figli di Rea, o secondo altri ai Coribanti, il compito di custodire la culla di Zagreo nella grotta Idea e là essi gli danzavano attorno, battendo le loro armi l’una contro l’altra, come già avevano fatto attorno alla culla di Zeus sul Ditte. Ma i Titani, nemici di Zeus, sbiancandosi il volto col gesso per rendersi irriconoscibili, attesero finché i Cureti furono addormentati e a mezzanotte indussero Zagreo a seguirli, offrendogli dei giocattoli: un cono, un rombo, mele d’oro, uno specchio, un astragalo e un batuffolo di lana. Zagreo diede prova di grande coraggio quando poi i Titani gli balzarono addosso minacciosi e si sottopose a varie metamorfosi per trarli in inganno: divenne successivamente Zeus avvolto in pelle di capra, Crono che fa cadere la pioggia, un leone, un cavallo, un serpente cornuto, una tigre e un toro. A questo punto i Titani lo afferrarono saldamente per le corna, gli affondarono i denti nella carne e lo divorarono vivo.

Atena interruppe l’orrendo banchetto poco prima della fine e, impadronitasi del cuore di Zagreo, lo rinchiuse in una figura di gesso, nella quale soffiò la vita; e così Zagreo divenne immortale. Le sue ossa furono raccolte e sepolte a Delfi, e Zeus uccise i Titani colpendoli con la folgore.

Questo mito si riferisce al sacrificio annuale di un fanciullo che si compiva nell’antica Creta. Un sostituto di Minosse, il re-toro, regnava per un solo giorno, partecipava a una danza simboleggiante le cinque stagioni (leone, capra, cavallo, serpente e vitello) e poi veniva ucciso e divorato crudo. I balocchi offerti dai Titani erano oggetti usati dai filosofi orfici, che continuarono la tradizione del sacrificio, ma sostituirono il fanciullo con un vitello. Il rombo era un sasso forato o un vaso, che roteando legato all’estremità di ma corda produceva un suono simile a quello del vento che s’alza; il batuffolo di lana serviva probabilmente a imbrattare con gesso i volti dei Cureti. Venivano chiamati anche Coribanti o danzatori crestati. Gli altri doni servivano a spiegare la natura della cerimonia grazie alla quale i partecipanti si identificavano con il dio: il cono era un antico emblema della dea, cui i Titani sacrificarono Zagreo; lo specchio rappresentava l’alter ego, l’ombra dell’iniziato; le mele d’oro, il suo passaporto per i Campi Elisi dopo la finta morte; l’astragalo, i suoi poteri divinatori. Un inno cretese scoperto pochi anni orsono a Paleocastro, presso la grotta di Ditte, è rivolto al Cronio, il principe dei giovani, che giunge danzando alla testa dei suoi demoni e saltella per accrescere la fertilità del suolo e la fecondità delle greggi, nonché la buona sorte delle flottiglie da pesca. Jane Harrison, in Themis, fa l’ipotesi che i protettori mediante lo scudo, menzionati nell’inno, i quali “ti prendono, o immortale fanciullo, dal fianco di Rea”, fingessero soltanto di uccidere e mangiare le vittime, secondo un rito di iniziazione alla loro società segreta. Ma tutte queste finte morti e cerimonie iniziatiche, diffuse in molte parti del mondo, pare comportassero in origine veri e propri sacrifici umani; e le metamorfosi calendariali di Zagreo lo distinguono dai soliti membri di un clan totemico.

La presenza non canonica della tigre come ultima metamorfosi di Zagreo è spiegabile in quanto Zagreo si identifica con Dioniso: la leggenda della morte e della resurrezione di Dioniso, infatti, è identica alla leggenda della morte e della resurrezione di Zagreo, benché la sua carne sia divorata cotta anziché cruda, e si trovi citato il nome di Rea anziché quello di Artemide. Anche Dioniso era un serpente cornuto (aveva corna e riccioli di serpente alla nascita) e i suoi seguaci orfici mangiavano la carne del dio sotto forma di tori. Zagreo divenne “Zeus avvolto in pelle di capra” poiché Zeus o il suo fanciullo di sostituzione, era asceso al cielo avvolto nella pelle della capra Amaltea. “Crono che fa scendere la pioggia” è un’allusione all’uso dei rombi nelle cerimonie propiziatorie di pioggia. In queste circostanze i Titani erano i Tifami «uomini bianchi come la calce», cioè i Cureti stessi travestiti in modo che lo spettro della vittima non potesse riconoscerli. Quando i sacrifici umani caddero in disuso. Zeus fu rappresentato nell’atto di scagliare la folgore contro i cannibali; e i Titanes, “signori della settimana di sette giorni”, furono confusi con i Titanoi, “gli uomini bianchi come la calce”, a causa della loro ostilità a Zeus.

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Il mito di Ganimede, coppiere degli dèi

Il mito di Ganimede, coppiere degli dèi

Ganimede, figlio del re Troo che diede il suo nome a Troia, fu il più bello dei fanciulli viventi e venne perciò scelto dagli dèi per fare da coppiere a Zeus. Si dice che Zeus, desiderando Ganimede anche come compagno di letto, si travestì con penne d’aquila e lo rapì nella pianura di Troia. Il particolare dell’aquila che rapisce Ganimede si spiega con un vaso ceretano a figure nere dove si vede un’aquila che emerge dalla coscia del re appena insediato in trono; il re è Zeus, e l’aquila personifica il potere divino che gli viene conferito (il suo ka, ossia la sua seconda personalità) così come il falco solare scendeva sui Faraoni al momento della loro incoronazione.

In seguito, Ermes, in nome di Zeus, donò a Troo un tralcio di vite d’oro, opera di Efesto, e due splendidi cavalli, per compensarlo della perdita del figlio, assicurandogli al tempo stesso che Ganimede era divenuto immortale, immune dalle miserie della vecchiaia, e in quel momento sorrideva, con la coppa d’oro tra le mani, mentre mesceva il nettare al Padre del Cielo. Il nome di Ganimede si riferisce propriamente al gioioso ridestarsi del desiderio del giovanetto all’idea delle nozze, e non al desiderio di Zeus rinfocolato dal nettare versategli dall’amante; ma divenuto catamitus in latino, diede origine alla parola inglese «catamite» che indica il passivo oggetto della libidine omosessuale maschile.

Altri dicono che Ganimede fu rapito dapprima da Eos (l’Aurora), invaghitesi di lui, e che Zeus in seguito lo sottrasse alla dea. Comunque fossero andate le cose, Era considerò quel ratto come un insulto fatto a lei stessa e alla sua figliola Ebe, che fino a quel giorno era stata coppiera degli dèi; ma riuscì soltanto a irritare Zeus, che pose negli astri l’immagine di Ganimede, facendone la costellazione dell’Acquario. La costellazione dell’Acquario, identificata con Ganimede, era in origine una divinità egizia preposta alle sorgenti del Nilo e che versava acqua e non vino dal suo fiasco (Pindaro, Frammento 110); i Greci tuttavia si interessavano ben poco del Nilo. Il nettare di Zeus, che i mitografi di epoca più tarda descrissero come vino rosso sovrannaturale, era in verità un primitivo idromele, e l’ambrosia, lo squisito cibo degli dèi, pare fosse una pappa di orzo, olio e frutta schiacciata di cui si abbuffavano i re mentre i loro sudditi più poveri vivevano ancora di asfodeli, di malva e di ghiande.

Il mito di Ganimede, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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Recensione: La mente colorata – Ulisse e l’Odissea di Pietro Citati

Recensione: La mente colorata – Ulisse e l’Odissea di Pietro Citati

La mente colorata di Pietro Citati è un libro che offre una lettura personale e appassionata dell’Odissea di Omero, il capolavoro della letteratura greca antica. L’autore non si limita a riassumere la trama del poema, ma ne svela i significati più profondi e le sfumature più suggestive, mettendo in risalto la figura di Ulisse, l’eroe dalle mille astuzie e dalla mente poliedrica. Citati segue il viaggio di Ulisse attraverso le sue avventure e le sue prove, mostrando come egli sia capace di adattarsi a ogni situazione e di usare la sua intelligenza e la sua fantasia per superare gli ostacoli. Il libro è anche un omaggio alla bellezza della poesia omerica, che Citati rievoca con uno stile elegante e coinvolgente, ricco di immagini e metafore. La mente colorata è quindi un’opera che invita il lettore a riscoprire l’Odissea con occhi nuovi e a lasciarsi affascinare dalla sua forza narrativa e dal suo messaggio universale.

Nato da un progetto a lungo accarezzato, La mente colorata è soprattutto un’interpretazione narrata dell’Odissea, dove velocità e leggerezza celano un immane lavoro di documentazione. Un racconto, dunque, che «conquista senza scampo», come ha scritto Piero Boitani, giacché «intrecciare ancora una volta il tessuto stupefacente dell’Odissea, e insieme interpretarlo nell’arazzo più vasto della letteratura greca, non è esattamente cosa facile», e Citati lo fa apparire «semplice e limpido». Ma c’è di più: per Citati, che coltiva in egual misura la passione per gli antichi e per i moderni, l’Odissea inventa le leggi dell’arte del narrare, ne sperimenta ogni forma e possibilità, sicché dal poema si dipartono luminosi tragitti, che ci proiettano verso i libri che verranno: “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister”, “Anna Karenina”, la “Recherche” sono costruiti secondo lo stesso principio sinfonico; nell’isola dei Feaci Ulisse fonda il racconto fantastico, che ha ispirato le storie delle “Mille e una notte”, Potocki, Hoffmann, Poe, e nella capanna di Eumeo il racconto d’avventura, da cui discendono i romanzi ellenistici, Dumas, Stevenson. Comprendere l’Odissea significa, del resto, comprendere «noi stessi, l’arte moderna, il nostro futuro».

Quella di Citati è una tela ricca di trame intessute (a ricordare un po’ quella di Penelope): la narrazione del libro inizia con la presentazione delle divinità che presiedono alle avventure di Odisseo: Apollo, Ermes, le Muse. Citati passa poi in rassegna gli dèi dell’Iliade e dell’Odissea, poi presenta l’eroe dell’Iliade, Achille, e solo a pagina 88 del volume, inizia a parlare di Ulisse. Come sempre, il re di Itaca si nasconde e compare quando vuole lui, e con astuzia si inserisce nella narrazione. Dopo una breve comparsa, rieccolo scomparire per lasciar spazio, nella narrazione di Citati, al figlio Telemaco e al suo viaggio alla ricerca di notizie sul padre scomparso da 20 anni. Citati ci parla quindi di Elena e Proteo. A questo punto, finalmente, ecco arrivare il nostro navigatore: l’isola di Calipso e l’arrivo dai Feaci, dove Ulisse inizia il suo racconto (e siamo a pagina 161!). Davanti agli occhi scorrono i formaggi di Polifemo, l’isola di Circe, il viaggio nell’Ade con l’abbraccio impossibile alla madre, le sirene e il loro canto straziante. Citati passa poi al ritorno a Itaca, alla capanna di Eumeo, guardiano di porci, alla figura di Penelope, alla strage dei proci, all’ultimo misterioso viaggio di Ulisse.

Insomma, in questo volume si narra con piacere e cognizione di causa di Ulisse, l’uomo dalla mente dai mille colori, variegato, multiforme, metamorfico, fatto di mille frammenti e di mille volti che si volgono da tutte le parti come il polpo a cui assomiglia. Un universo da scoprire!

Citati, Pietro. La mente colorata: Ulisse e l’Odissea. Adelphi, 2018 (2002), 359 pagine.

Breve Biografia di Pietro Citati
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La recensione di Pietro Citati a La Dea Bianca di Robert Graves
Una selezione di libri scritti da Pietro Citati

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