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Il mito di Ganimede, coppiere degli dèi

Il mito di Ganimede, coppiere degli dèi

Ganimede, figlio del re Troo che diede il suo nome a Troia, fu il più bello dei fanciulli viventi e venne perciò scelto dagli dèi per fare da coppiere a Zeus. Si dice che Zeus, desiderando Ganimede anche come compagno di letto, si travestì con penne d’aquila e lo rapì nella pianura di Troia. Il particolare dell’aquila che rapisce Ganimede si spiega con un vaso ceretano a figure nere dove si vede un’aquila che emerge dalla coscia del re appena insediato in trono; il re è Zeus, e l’aquila personifica il potere divino che gli viene conferito (il suo ka, ossia la sua seconda personalità) così come il falco solare scendeva sui Faraoni al momento della loro incoronazione.

In seguito, Ermes, in nome di Zeus, donò a Troo un tralcio di vite d’oro, opera di Efesto, e due splendidi cavalli, per compensarlo della perdita del figlio, assicurandogli al tempo stesso che Ganimede era divenuto immortale, immune dalle miserie della vecchiaia, e in quel momento sorrideva, con la coppa d’oro tra le mani, mentre mesceva il nettare al Padre del Cielo. Il nome di Ganimede si riferisce propriamente al gioioso ridestarsi del desiderio del giovanetto all’idea delle nozze, e non al desiderio di Zeus rinfocolato dal nettare versategli dall’amante; ma divenuto catamitus in latino, diede origine alla parola inglese «catamite» che indica il passivo oggetto della libidine omosessuale maschile.

Altri dicono che Ganimede fu rapito dapprima da Eos (l’Aurora), invaghitesi di lui, e che Zeus in seguito lo sottrasse alla dea. Comunque fossero andate le cose, Era considerò quel ratto come un insulto fatto a lei stessa e alla sua figliola Ebe, che fino a quel giorno era stata coppiera degli dèi; ma riuscì soltanto a irritare Zeus, che pose negli astri l’immagine di Ganimede, facendone la costellazione dell’Acquario. La costellazione dell’Acquario, identificata con Ganimede, era in origine una divinità egizia preposta alle sorgenti del Nilo e che versava acqua e non vino dal suo fiasco (Pindaro, Frammento 110); i Greci tuttavia si interessavano ben poco del Nilo. Il nettare di Zeus, che i mitografi di epoca più tarda descrissero come vino rosso sovrannaturale, era in verità un primitivo idromele, e l’ambrosia, lo squisito cibo degli dèi, pare fosse una pappa di orzo, olio e frutta schiacciata di cui si abbuffavano i re mentre i loro sudditi più poveri vivevano ancora di asfodeli, di malva e di ghiande.

Il mito di Ganimede, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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Il mito di Eos, l’Aurora

Il mito di Eos, l’Aurora

Al termine di ogni notte, Eos dalle rosee dita e dal manto color zafferano, figlia dei Titani Iperione e Tia, si alza dal suo giaciglio a oriente, sale sul cocchio tirato dai cavalli Lampo e Fetonte e corre verso l’Olimpo, dove annuncia l’approssimarsi di suo fratello Elio. Quando Elio appare, Eos diventa Emera e lo accompagna nei suoi viaggi finché, trasformatasi in Espera, ne annuncia il felice arrivo sulle spiagge occidentali dell’Oceano.

Afrodite si irritò un giorno trovando Ares nel letto di Eos, e condannò costei ad ardere di desiderio per i giovani mortali; subito Eos cominciò segretamente a sedurli; dapprima Orione, poi Cefalo; poi dito, nipote di Melampo; Eos era tuttavia maritata ad Astreo, discendente dei Titani, cui essa generò non soltanto i Venti del Nord, dell’Ovest e del Sud, ma anche Fosforo e, come taluni vogliono, tutte le altre stelle del cielo. Eos rapì infine Ganimede e Titono, figli di Troo o di Ilo. Quando Zeus le sottrasse Ganimede, essa lo supplicò di rendere Titono immortale e Zeus acconsentì. Ma Eos si scordò di chiedere per lui anche il dono della perpetua giovinezza, che Selene già aveva ottenuto per Endimione; e Titono divenne ogni giorno più vecchio, canuto e grinzoso, la sua voce si fece stridula e, quando fu stanca di badare a lui, Eos lo chiuse nella sua stanza da letto, dove Titono si trasformò in cicala.

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Il mito di Orione

Il mito di Orione

Orione, cacciatore di Irla in Beozia e il più bello dei mortali, era figlio di Poseidone e di Euriale. Giunto un giorno a Chio si innamorò di Merope, figlia di Enopione che era figlio di Dioniso. Enopione promise in sposa Merope a Orione, se egli avesse liberato l’isola dalle belve che l’infestavano, e Orione si accinse a eseguire questo compito, donando ogni sera a Merope le pelli degli animali uccisi. Ma quando ebbe terminato la sua fatica, e reclamò Merope in moglie, Enopione disse che leoni, orsi e lupi erano stati visti vagare ancora sulle colline e rifiutò di concedergli Merope, perché in verità egli stesso ne era innamorato. Una sera Orione, amareggiato, bevve un otre del vino di Enopione e tanto si riscaldò che irruppe nella stanza di Merope e la costrinse a giacersi con lui. Quando spuntò l’alba, Enopione invocò il padre suo Dioniso che incaricò i Satiri di offrire altro vino a Orione, finché il giovane cadde addormentato. Allora Enopione gli strappò gli occhi e lo gettò sulla riva del mare. Un oracolo annunciò che Orione avrebbe ricuperato la vista se avesse camminato verso oriente e rivolte le vuote orbite a Elio nel punto dove egli sorge dall’oceano. Orione subito prese a vogare in una piccola barca e, seguendo il fragore dei martelli dei Ciclopi, raggiunse l’isola di Lemno. Là egli entrò nella fucina di Efesto, rapì un apprendista chiamato Cedalione e se lo caricò sulle spalle perché gli servisse da guida. Cedalione guidò Orione per mare e per terra finché giunse alla spiaggia più remota dell’oceano, dove Eos (l’Aurora) si innamorò di lui e il fratello di Eos, Elio, gli restituì la vista.

Dopo aver visitato Delo in compagnia di Eos, Orione ritornò a Chio per vendicarsi di Enopione, ma non riuscì a trovarlo nell’isola, poiché egli si era nascosto in una camera sotterranea preparata per lui da Efesto. Salpato per Creta, dove pensava che Enopione si fosse rifugiato per invocare l’aiuto del nonno Minosse, Orione si imbatté in Artemide, che nutriva come lui una grande passione per la caccia. La dea lo indusse a rinunciare ai suoi propositi di vendetta e a recarsi a cacciare in sua compagnia. Ora, Apollo sapeva che Orione non aveva rifiutato di giacersi con Eos nell’isola sacra di Delo (l’aurora arrossisce ogni giorno al ricordo di quella profanazione) e che inoltre si vantava di voler liberare tutta la terra dalle belve e dai mostri. Poiché temeva che sua sorella Artemide cedesse come Eos al fascino del bel cacciatore. Apollo si recò dalla Madre Terra e, riferendole in modo equivoco le vanterie di Orione, la indusse a scatenare contro costui la furia di un velenosissimo scorpione. Orione si difese dapprima con le frecce, poi con la spada, ma, resosi conto che lo scorpione era invulnerabile, si tuffò nel mare e nuotò verso Delo, dove sperava che Eos lo avrebbe protetto. Apollo allora disse ad Artemide: «Vedi quell’oggetto nero che galleggia sul mare nei pressi di Ortigia? È la testa di un malvagio chiamato Candaone, che ha poc’anzi sedotto Opide, una delle tue sacerdotesse iperboree. Ti sfido a trafiggerlo con una freccia!» Ora, Candaone era il soprannome beota di Orione, ma Artemide non lo sapeva. Prese accuratamente la mira, scoccò la freccia e, quando raggiunse a nuoto la sua vittima, si accorse di aver trafitto il capo di Orione. Pianse allora e invocò Asclepio, figlio di Apollo, perché ridonasse la vita al giovane. Asclepio acconsentì, ma fu colpito dalla folgore di Zeus prima che si potesse mettere all’opera. Artemide pose tra le stelle l’immagine di Orione, eternamente inseguito dallo scorpione; la sua ombra è già discesa nei Campi di Asfodeli.

Altri, tuttavia, dicono che Orione morì per il morso dello scorpione e che Artemide era irritata con lui perché egli aveva inseguito le sue vergini compagne, le Pleiadi, figlie di Atlante e di Pleiona. Esse fuggirono attraverso i campi della Beozia finché gli dèi, mutatele in colombe, ne immortalarono le immagini tra le stelle. Ma questa versione è errata, poiché le Pleiadi non erano vergini: tre di loro si giacquero con Zeus, due con Poseidone, una con Ares, e la settima sposò Sisifo di Corinto e non fu inclusa nella costellazione delle sue sorelle perché Sisifo era un mortale.

Altri ancora narrano una strana storia sulla nascita di Orione, per spiegare sia il suo nome (che taluni scrivono Urione), sia la tradizione che lo vuole figlio della Madre Terra. Irieo, un povero apicoltore, aveva fatto voto di non avere figli e diventò vecchio e impotente. Un giorno Zeus ed Ermes, che si erano recati da lui sotto false spoglie ed erano stati accolti ospitalmente, gli chiesero quale dono desiderasse ricevere. Sospirando, Ireo replicò che il suo più grande desiderio, cioè quello di avere un figlio, era irrealizzabile. Gli dèi tuttavia gli dissero di sacrificare un toro, di urinare nella sua pelle e poi di seppellirla nella tomba di sua moglie. Irieo obbedì e nove mesi dopo gli nacque un figlio che egli chiamò Urione “colui che produce l’acqua” e infatti la costellazione di Orione porta le piogge sia quando si leva in ciclo sia quando tramonta.

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