Le dodici fatiche di Eracle: 10) Le mandrie di Gerione

Le dodici fatiche di Eracle: 10) Le mandrie di Gerione

Il racconto del mito di Eracle è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 15: Eracle – L’eroe più popolare

Prima di questo post, se non l’hai ancora letto, leggi: Le dodici fatiche di Eracle: 9) La cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni

Decima Fatica di Eracle fu impossessarsi del bestiame di Gerione in Erizia, un’isola presso il fiume Oceano, senza richiesta né pagamento. Gerione, figlio di Crisaore e di Callirroe, una figlia del Titano Oceano, era re di Tartesso in Spagna e reputato il più forte fra gli uomini viventi. Era nato infatti con tre teste, sei braccia e tre busti che si riunivano alla vita. La mandria di Gerione, che comprendeva bestie di pelo fulvo e di straordinaria bellezza, era sorvegliata dal mandriano Eurizione, figlio di Are, e da Ortro, cane a due teste, un tempo di proprietà di Atlante e nato da Tifone e da Echidna. Nel corso del suo viaggio attraverso l’Europa, Eracle uccise molte belve feroci e, giunto infine a Tartesso, eresse un paio di colonne, l’una di fronte all’altra, sulle due rive dello stretto: una in Europa, l’altra in Africa. Alcuni dicono che i due continenti erano dapprima uniti e che Eracle li separò aprendo un canale; altri invece dicono che egli rimpicciolì il canale già esistente per impedire il passaggio di balene o altri mostri marini. Elio fece splendere i suoi raggi su Eracle, e l’eroe, che non riusciva a lavorare con tale calura, incoccò una freccia nell’arco e la scagliò contro il dio. «Questo è troppo», gridò Elio furibondo. Eracle si scusò per quello scatto d’ira e subito allentò l’arco. Per non essere da meno in fatto di cortesia. Elio imprestò a Eracle il suo nappo d’oro a forma di giglio d’acqua, perché in esso navigasse fino a Erizia. Ma il Titano Oceano, per mettere Eracle alla prova, fece beccheggiare pericolosamente il nappo sui flutti. Eracle tese di nuovo l’arco e indusse così Oceano, spaventato, a placare la tempesta. Un’altra versione dice che Eracle navigò fino a Erizia in un’urna di bronzo, servendosi della sua pelle di leone a mo’ di vela. Al suo arrivo nell’isola. Eracle salì sul monte Abante. Il cane Ortro si precipitò su di lui abbaiando, ma Eracle lo abbatté con un colpo della sua clava; ed Eurizione, il mandriano di Gerione, correndo in aiuto di Ortro, morì allo stesso modo. Eracle allora cominciò a portar via il bestiame. Menete, che faceva pascolare la mandria di Ade lì nei pressi, benché Eracle non avesse toccato le sue bestie, andò ad avvertire Gerione. Sfidato a battersi. Eracle corse finché si trovò di fianco a Gerione e gli trapassò tutti e tre i corpi con una sola freccia; ma altri dicono che rimase fermo e scoccò tre frecce in rapida successione. Era si affrettò allora in aiuto di Gerione; ma Eracle la ferì con una freccia alla mammella destra e la dea fuggì. Così Eracle si impadronì della mandria, senza richiederla né pagarla, e si imbarcò sul nappo d’oro, che restituì a Elio con molti ringraziamenti non appena giunse sano e salvo a Tartesso. Dal sangue di Gerione germogliò un albero che ogni anno, quando le Pleiadi si alzano in ciclo, dà frutti senza nocciolo simili alle ciliegie. Gerione tuttavia non morì senza discendenti: sua figlia Erizia ebbe da Ermete un figlio, Norace, che guidò un gruppo di coloni in Sardegna, ancor prima di Ilio, e colà fondò Nora, la più antica città dell’isola. Non si sa con certezza dove fosse situata Erizia, detta anche Eritrea o Eritria. Alcuni la descrivono come un’isola presso il fiume Oceano, altri la situano al largo della costa della Lusitania. Altri ancora la identificano con l’isola del Leone, oppure con un’isoletta vicina, sulla quale sorse l’antica città di Cadice e dove verdeggiavano pascoli così ricchi che il latte era tutta panna e bisognava salassare il bestiame ogni cinquanta giorni perché non fosse soffocato da eccesso di sangue. L’isoletta, sacra a Era, è chiamata o Erizia o Afrodisia. Leone, l’isola dove si trova l’attuale città di Cadice, era un tempo chiamata Cotinusa per i suoi oliveti, ma i Fenici le diedero il nuovo nome di Gadira (Cadice) ossia «città cintata». Sul promontorio occidentale sorgono il tempio di Crono e la città di Cadice; a oriente un tempio di Eracle, celebre per una sorgente che sgorga copiosa quando la marea si abbassa e pare inaridirsi quando la marea si alza. E Gerione giace sepolto nella città, pure famosa per un albero misterioso che prende via via forme diverse.

Secondo un’altra versione la mandria di Gerione non si trovava affatto su un’isola, ma sulle pendici dei monti nella parte più remota della Spagna, di fronte all’Oceano; e «Gerione» era l’appellativo di re Crisaore, che governava su tutto il territorio e aveva tre figli forti e coraggiosi i quali lo aiutarono a difendere il regno guidando ciascuno un esercito reclutato tra le genti più bellicose. Per combattere contro costoro. Eracle organizzò una grande spedizione in Creta, patria di suo padre Zeus. Prima di partire ricevette splendidi omaggi dai Cretesi e in cambio liberò la loro isola da orsi, lupi, serpenti e altri animali nocivi, e Creta non ne fu mai più infestata. Dapprima Eracle veleggiò verso la Libia, dove uccise Anteo, cacciò altre belve dal deserto e rese la terra fertile come mai lo era stata prima. Poi si recò in Egitto, dove uccise Busiride e poi marciò verso occidente, attraverso il Nordafrica, annientando le Gorgoni e le Amazzoni libiche; fondò la città di Ecatompilo, ora Capsa, nella Numidia meridionale e raggiunse l’Oceano presso Cadice. Colà innalzò
le colonne ai due lati dello stretto e, trasportata la sua armata in Spagna, si accorse che i tre figli di Crisaore, con i loro tre eserciti, erano accampati a una certa distanza gli uni dagli altri. Li affrontò separatamente e li vinse, uccidendo i capi, e infine si portò via la mandria di Gerione, affidando il governo della Spagna ai più degni degli indigeni superstiti.

Le Colonne di Eracle sono di solito identificate con il monte Calpe in Europa e Abila o Abilice in Africa. Per altri tali colonne sono due isolette presso Cadice, la più grande delle quali è sacra a Era. Gli Spagnoli e i Libici tuttavia prendono alla lettera il termine «colonne» e ritengono che si tratti delle colonne erette a Cadice in onore di Eracle, alte otto cubiti e ciascuna con inciso sopra quanto costò. Colà i marinai che sono tornati sani e salvi da un viaggio offrono sacrifici. Secondo quanto raccontano gli stessi abitanti di Cadice, il re di Tiro ricevette da un oracolo l’ordine di fondare una colonia presso le Colonne di Eracle e a tale scopo fece partire da Tiro tre spedizioni. La prima, pensando che l’oracolo alludesse ad Abila e a Calpe, sbarcò nello stretto, dove ora sorge la città di Exitani; la seconda veleggiò per circa duecento miglia oltre lo stretto, fino a un’isola sacra a Eracle di fronte alla città spagnola di Onoba; ma ambedue furono scoraggiate da presagi sfavorevoli mentre offrivano sacrifici, e tornarono in patria. La terza spedizione raggiunse Cadice dove innalzò un tempio a Eracle sul promontorio orientale e fondò la città di Cadice sul promontorio occidentale. Altri tuttavia negano che fosse Eracle a innalzare quelle colonne e affermano che Abila e Calpe furono dapprima chiamate «Colonne di Crono» e in seguito «Colonne di Briareo», un gigante il cui potere si estese fin laggiù; ma che, svanito il ricordo di Briareo (chiamato anche Egeone), furono chiamate con nuovo nome in onore di Eracle, forse perché la città di Tartesso, che sorge a cinque miglia all’incirca da Calpe, era stata fondata dall’eroe ed era anche nota come Eraclea. Ancora vi si vedono resti di grandi mura e di cantieri. Ma non dobbiamo dimenticare che in origine Eracle fu anche chiamato Briareo. Di solito si ritiene che le Colonne di Eracle fossero due; ma altri parlano di tre o di quattro. Pare che ci siano delle cosiddette Colonne di Eracle anche sulla costa settentrionale della Germania, nel Mar Nero, nell’estremità occidentale della Gallia e in India. Un tempio di Eracle sorge sul Sacro Promontorio in Lusitania, il punto più occidentale del mondo. I visitatori non possono entrare nel recinto del tempio durante la notte, perché a quell’ora vi soggiornano gli dèi. Forse, quando Eracle innalzò le colonne per segnare il limite delle acque sicuramente navigabili, questo fu il luogo che elesse. Ancora si discute sui mezzi che Eracle adottò per trasportare il bestiame a Micene. Alcuni dicono che egli riunì temporaneamente Abila con Calpe e passando su quel ponte entrò in Libia; ma secondo una versione più probabile egli attraversò il territorio dove ora sorge Abdera, una colonia fenicia, e percorse la Spagna, dove alcuni dei suoi seguaci si fermarono per fondare colonie. Nei Pirenei egli corteggiò e poi seppellì Pirene, principessa dei Bebrici, dalla quale la catena di montagne prende il nome. Si dice che laggiù sorga il Danubio, presso una città chiamata pure Pirene in onore della principessa. Eracle visitò poi la Gallia, dove abolì la barbara usanza di uccidere i forestieri, e si guadagnò tante simpatie con le sue nobili imprese che fu autorizzato a fondare una grande città cui diede il nome di Alesia, ossia «Errante», in ricordo dei suoi lunghi viaggi. I Galli ancor oggi considerano Alesia come il cuore e la città madre di tutta la loro terra (fu conquistata sotto il regno di Caligola) e si vantano di discendere dalla unione di Eracle con una principessa di eccezionale statura chiamata Galata, che lo elesse suo amante e da lui generò una razza di guerrieri. Mentre Eracle percorreva la Liguria con la mandria di Gerione, due figli di Poseidone, chiamati Ialebione e Dercino, cercarono di rubargli il bestiame e furono ambedue uccisi, A un certo punto della battaglia combattuta contro forze liguri nemiche. Eracle si trovò sprovvisto di frecce e si inginocchiò piangente, ferito ed esausto. Poiché il terreno lì attorno era tutto di soffice creta, non trovò sassi da lanciare contro il nemico (Ligie, fratello di Ialebione, era capo dei Liguri), ma infine Zeus, commosso dalle lacrime dell’eroe, coprì il cielo con una nube dalla quale piovvero pietre; e così i Liguri furono messi in fuga. Zeus pose tra le stelle l’immagine di Eracle che combatte contro i Liguri, nella costellazione detta Engonaside. Un altro ricordo di tale battaglia rimase sulla terra, e cioè la larga pianura circolare che si estende tra Marsiglia e le bocche del fiume Rodano, a circa quindici miglia dal mare, chiamata «Pianura Sassosa» perché è cosparsa di pietre grandi quanto il pugno di un uomo. Vi si trovano anche sorgenti salate. Durante la traversata delle Alpi liguri Eracle tagliò una strada dove potessero comodamente passare il suo esercito e le sue salmerie; disperse anche le bande di briganti che infestavano il passo e poi entrò nell’attuale Gallia Cisalpina e in Etruria. Soltanto dopo aver vagato a lungo in Italia, ed esser giunto in Sicilia, Eracle si accorse di avere sbagliato strada. I Romani dicono che, giunto sulle rive dell’Albula, in seguito chiamato Tevere, Eracle fu accolto da re Evandro, un esule dall’Arcadia. Alla sera attraversò il fiume a nuoto, spingendo dinanzi a sé la mandria, e si sdraiò sulla riva erbosa per riposare. In una profonda grotta, lì nei pressi, viveva un enorme e orribile pastore con tre teste chiamato Caco, figlio di Efesto e di Medusa, che era il terrore della foresta dell’Aventino e sputava fiamme da ciascuna delle sue tre bocche. Crani e membra umane erano inchiodati alle travi di sostegno della grotta, e il suolo biancheggiava delle ossa delle sue vittime. Mentre Eracle dormiva. Caco rubò due dei più bei tori della mandria e quattro manzi, che trascinò nella sua grotta tirandoli per la coda. Alle prime luci dell’alba Eracle si destò e subito si accorse che alcuni capi di bestiame erano spariti. Dopo averli cercati invano, fu costretto a riprendere il cammino col resto della mandria, ma ecco che uno dei manzi rubati muggì lamentosamente. Eracle, seguendo quel muggito, giunse alla grotta di Caco, ma la trovò sbarrata da un masso che dieci coppie di buoi avrebbero a mala pena smosso. Ciò nonostante Eracle lo spostò come se si trattasse di un ciottolo e, senza arretrare dinanzi al fumo e alle fiamme che Caco stava ora vomitando, lo agguantò e gli maciullò il viso. Con l’aiuto di re Evandro, Eracle poi innalzò un altare a Zeus, cui sacrificò uno dei tori ricuperati, e in seguito organizzò anche il proprio culto, i Romani tuttavia raccontano questa storia in modo da rivendicarne la gloria: secondo loro non fu Eracle che uccise Caco e offrì sacrifici a Zeus, ma un mandriano gigantesco chiamato Garano o Recarano, alleato di Eracle. Re Evandro governava più per i suoi meriti personali che per la sua potenza: era particolarmente stimata la sua conoscenza delle lettere che gli era stata infusa dalla madre profetessa, l’arcade Ninfa Nicostrata o Temi; essa era figlia del fiume Ladone e, pur essendo già maritata a Echeno, generò Evandro da Ermete. Nicostrata indusse Evandro ad assassinare il suo presunto padre, e, quando gli Arcadi li bandirono ambedue, venne con lui in Italia, scortata da un gruppo di Pelasgi. Colà, circa sessant’anni prima della guerra di Troia, fondarono la piccola città di Pallanzio, su una collina presso il fiume Tevere, più tardi chiamata Monte Palatino. Quel luogo era stato scelto da Nicostrata, e ben presto non vi fu in Italia un re più potente di Evandro. Nicostrata, ora chiamata Carmenta, adattò l’alfabeto pelasgico di tredici consonanti, che Cadmo aveva portato dall’Egitto, all’alfabeto latino di quindici consonanti. Ma altri affermano che fu Eracle a insegnare al popolo di Evandro l’uso delle lettere, e per questo egli viene onorato sullo stesso altare delle Muse. Secondo i Romani, Eracle liberò re Evandro dal peso di un tributo che doveva pagare agli Etruschi; uccise re Fauno, che usava sacrificare gli stranieri sull’altare di suo padre Ermete; e generò Latino, l’antenato dei Latini, dalla vedova di Fauno, oppure dalla di lui figlia. Ma i Greci sostengono che Latino era figlio di Circe e di Odisseo. Eracle, in ogni caso, soppresse l’annuale sacrificio di due uomini che erano gettati nel Tevere come offerta a Crono, e costrinse i Romani a sostituirli con due fantocci. Ancor oggi, nel mese di maggio, quando la luna è piena, la prima delle vergini Vestali, ritta sul ligneo Pons Sublicius, getta nella bionda corrente del fiume i simulacri di due vegliardi chiamati «Argivi», dipinti in bianco e fatti con giunchi intrecciati. Si crede inoltre che Eracle abbia fondato Pompei ed Ercolano; che abbia sconfitto i giganti dei Campi Flegrei presso Cuma e che abbia costruito una diga lunga un miglio attraverso il golfo Lucrino, ora chiamata strada Eraclea; su di essa fece passare la mandria di Gerione.

Si dice inoltre che Eracle si sdraiò per riposare al confine tra il territorio di Reggio e quello di Locri Epizefiri e che, disturbato dal canto delle cicale, supplicò gli dei di farle tacere. La sua preghiera fu subito esaudita e da quel giorno non si sentirono più le cicale lungo la riva reggina del fiume Alece, mentre ancora cantano allegramente lungo la riva locrese. La sera stessa un toro si staccò dal branco e, tuffatesi nel mare, nuotò sino alla Sicilia. Eracle, inseguendo il toro, lo trovò tra il bestiame di Erice, re degli Elimi, figlio di Afrodite e di Bute. Erice, che era ottimo pugile e lottatore, lo sfidò a un combattimento in cinque riprese. Eracle accettò la sfida, alla condizione che Erice avrebbe messo in palio il suo regno contro il toro fuggito dalla mandria di Gerione, e vinse le prime quattro riprese; infine sollevò Erice alto sulle braccia, lo scaraventò a terra e lo uccise, e così insegnò ai Siciliani che chi è nato da una dea non è sempre immortale.
Eracle vinse dunque il regno di Erice e lo lasciò agli abitanti del luogo, perché ne godessero finché uno dei suoi discendenti non si presentasse per rivendicarlo. Altri dicono che Erice (il luogo dove egli lottò con Eracle ancora si vede) aveva una figlia chiamata Psofide che generò a Eracle due figli: Echefrone e Promaco. Condotti sull’Erimanto, essi gli diedero il nuovo nome di Psofide in onore della madre, e colà innalzarono il tempio ad Afrodite Ericina, di cui oggi rimangono soltanto le rovine. I santuari eroici di Echefrone e Promaco hanno da lungo tempo perduto la loro importanza, e Psofide è di solito considerata figlia di Xanto, nipote di Arcade. Proseguendo il suo viaggio attraverso la Sicilia, Eracle giunse al luogo dove ora sorge la città di Siracusa; colà offrì sacrifici e istituì una festa annuale presso la sacra gola del Ciane, dove emerse Ade per trascinare Core negli Inferi. Per coloro che lo onorano nella piana di Lentini, Eracle lasciò imperituri segni della sua visita. Presso la città di Agirlo, le impronte degli zoccoli del suo bestiame si impressero su una strada lastricata come se la pietra fosse cera; e considerando quel prodigio come una promessa di immortalità, Eraòle accettò dagli indigeni gli onori divini che sino a quel giorno aveva costantemente rifiutati. Poi, in segno di riconoscenza per tanti omaggi, scavò un lago di quattro stadi di circonferenza all’esterno delle mura, e innalzò i santuari di Iolao e di Gerione. Ritornando verso l’Italia per seguire un’altra strada che lo conducesse in Grecia, Eracle guidò la mandria lungo la costa orientale fino al promontorio Lacinie. Il re di quel territorio, Lacinie, si vantò in seguito di aver messo in fuga Eracle. Ma in verità egli si limitò a innalzare un tempio ad Era e a quella vista Eracle partì disgustato. Sei miglia più oltre uccise incidentalmente un certo Crotone, lo seppellì con tutti gli onori e profetizzò che, in tempi futuri, lì sarebbe sorta una grande città che avrebbe avuto il nome dell’ucciso. La profezia di Eracle si avverò dopo la sua divinizzazione: egli apparve in sogno a uno dei suoi discendenti, l’argivo Miscelo, minacciandolo di terribili punizioni se non avesse guidato un gruppo di coloni in Sicilia per fondarvi una città; e quando gli Argivi erano sul punto di condannare a morte Miscelo per aver contravvenuto alla loro legge contro l’emigrazione. Eracle miracolosamente tramutò tutti i sassolini neri del voto in sassolini bianchi. Eracle allora propose di guidare la mandria di Gerione attraverso l’Istria fino all’Epiro e di là nel Peloponneso passando per l’istmo. Ma quando fu sulle rive del golfo Adriatico, Era mandò un tafano che fece impazzire la mandria, spingendola nella Tracia e nel deserto scitico. Eracle si lanciò all’inseguimento e in una fredda notte tempestosa si avvolse nella pelle del leone e cadde addormentato sulla pendice di una collina. Quando si destò, vide che le cavalle del suo cocchio, che egli aveva lasciate libere di pascolare, erano sparite anch’esse. Eracle vagò in lungo e in largo alla ricerca delle cavalle finché raggiunse la boscosa regione di Ilea dove uno strano essere, metà donna e metà serpente, gli lanciò un richiamo dalla sua grotta. Essa si era impadronita delle cavalle e si disse disposta a restituirle se Eracle fosse divenuto il suo amante. Eracle acconsenti, sebbene con una certa riluttanza e la baciò tre volte. Al che la donna con la coda di serpente lo abbracciò con passione e quando, finalmente, egli fu libero di andarsene, gli chiese: «Che ne farò dei tre figli che ora porto nel mio seno? Quando saranno cresciuti debbo tenerli in questa terra dove io sono padrona, oppure mandarli da tè?» «Quando saranno cresciuti fai bene attenzione», rispose Eracle, «e se uno di essi tenderà l’arco così, come ora lo tendo io, e si cingerà i fianchi con questa cintura, così come ora io me ne cingo, eleggilo re di questo paese.» Dicendo tali parole le diede uno dei suoi due archi e la sua cintura che aveva un nappo d’oro appeso alla fibbia; poi proseguì il suo cammino. La donna ebbe tre gemelli che chiamò Agatirso, Gelone e Scita. I due primi si rivelarono impari al compito assegnato dal loro padre e la donna-serpente li scacciò; ma Scita riuscì in ambedue le prove e gli fu concesso di rimanere. Egli divenne così il capostipite di tutti i re sciti che da quel giorno hanno un nappo d’oro appeso alla cintura. Altri invece dicono che Zeus e non Eracle si giacque con la donna-serpente e che, quando i tre figli generati da lei furono in età di governare il paese, 1asciò cadere dal cielo quattro doni d’oro; un aratro, un giogo, un’ascia e una coppa. Agatirso corse per il primo a raccogliergli, ma appena si fu avvicinato gli oggetti presero fuoco e gli bruciarono le mani. La stessa sorte toccò a Gelone. Ma quando Scita si fece avanti, subito il fuoco si placò; egli si portò a casa i quattro doni e i suoi fratelli acconsentirono a cedergli il trono. Eracle, ritrovate le sue cavalle e gran parte della mandria dispersa, guadò il fiume Strimone gettandovi dentro dei massi a mo’ di diga, e non incappò in altre avventure finché il gigantesco mandriano Alcioneo, che si era impossessato dell’istmo di Corinto, fece rotolare un pezzo di roccia sull’esercito di nuovo riunitesi al seguito di Eracle, sfasciando dodici cocchi e uccidendo un numero doppio di uomini. Egli era quell’Alcioneo che rubò due volte i sacri bovini di Elio, da Erizia e dalla cittadella di Corinto. Scagliata la prima roccia ne afferrò un’altra e la scagliò contro Eracle che la rimandò indietro con un colpo della sua clava e uccise il Gigante; quella roccia ancora si vede sull’istmo.

Vai a: Le dodici fatiche di Eracle: 11) I pomi d’oro delle Esperidi

ll mito di Eracle, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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