Il mito di Cenide-Ceneo

Il mito di Cenide-Ceneo

Il racconto del mito di Cenide-Ceneo è tratto da Ovidio, Metamorfosi, XII 189-209 e 459-535 ed è collegato al nostro post Ermafrodito e altri esseri bisessuali.

 

 

 

 

 

 

Era famosa per la sua bellezza Cenide figlia di Elato,
la più bella ragazza della Tessaglia, richiesta
invano da tanti pretendenti nelle città vicine
e nelle tue, Achille — era tua compatriota.

Anche Peleo avrebbe forse aspirato alle sue nozze,
ma gli erano già toccate o almeno promesse
quelle con tua madre. Lei non volle sposare
nessuno, ma, mentre percorreva una spiaggia
isolata, subì la violenza, narra la fama, del dio del mare,
Nettuno, quand’ebbe goduta la gioia dell’amore vergine,
le disse: «Il tuo desiderio sarà al sicuro da ogni rifiuto;
scegli quello che vuoi». Anche questo narrava la fama.
Rispose Cenide: «Questa violenza produce un desiderio
grande, di non poter più subire una cosa simile.

Fammi non essere donna, e mi avrai dato tutto». Le ultime
parole le disse con timbro più grave, e poteva sembrare la voce di un uomo,
com’era: infatti il dio del mare profondo assentiva,
e in più le aveva concesso di non poter essere
mai ferito o soccombere al ferro. Se ne va lieto
del dono e passa la vita in occupazioni maschili l’Atracide, e percorre il bacino del fiume Peneo.

[…]

 

 

 

 

 

 

 

Cinque ne aveva uccisi Ceneo: Stifelo, Bromo,
Antimaco, Elimo e Piracmone che brandiva una scure:
non ricordo le ferite, mi è rimasto in mente soltanto il numero e il nome.
Ecco arriva di volo, armato delle spoglie del tessalo Aleso,
che aveva ucciso, Latreo, immenso nel corpo:
l’età stava tra giovane e vecchio, il vigore
era di un giovane, capelli bianchi variavano le sue tempie.
Distinguendosi per scudo e spada e lancia macedone,
voltato di faccia a guardare ambedue gli eserciti,
scosse le armi e galoppò in cerchio perfetto,
spendendo con alterigia tante parole nell’aria vuota:
«Anche te, Cenide, dovrò sopportare? Perché ai miei occhi sarai sempre donna,
sarai sempre Cenide. Non ti ricordi la tua natura originaria,
non ti viene in mente per quale fatto sei stata premiata,
a quale prezzo hai acquistato l’immagine falsa di uomo?
Vedi ciò che sei nata e che cosa hai subito;
prendi la conocchia e il cestino, e fila la lana col pollice:
lascia le guerre ai veri uomini». E mentre scagliava queste parole, Ceneo
tirò una lancia e gli perforò il fianco proteso in corsa,
dove l’uomo si unisce al cavallo. Allora infuria per il dolore,
e con la lancia colpisce il nudo volto del giovane
di Fillo, ma la lancia rimbalza indietro come dal tetto la grandine,
o se qualcuno colpisce un tamburo con un sassolino.
Allora lo attacca da presso e cerca di piantargli nel duro
fianco la spada, ma non c’è posto che faccia passare la spada.
«Non mi sfuggirai lo stesso, ti sgozzerò di taglio» gli dice,
«giacché la punta è ottusa», e volta la spada di taglio,
allungando il braccio destro e avvolgendogli il ventre.
Il colpo risuona come se fosse portato sul marmo;
sulla pelle callosa la lama si spezza e vola in schegge.

Quando gli parve di avere abbastanza offerto le membra invulnerabili
allo stupore del nemico, Ceneo disse: «E adesso proviamo il tuo corpo
con il mio ferro», e gli immerse nel fianco la spada mortale
fino all’elsa, e la mosse alla cieca dentro le viscere,
e Ie rigirò con la mano, facendo ferita dopo ferita.
Ecco che con enormi grida i Centauri piombano a precipizio
su di lui, e tutti tirano e portano colpi contro lui solo.
Ma le armi cadono spuntate, e rimane illeso da ogni colpo, senza perdere sangue, Ceneo figlio di Elato.
Il prodigio li sbigottì. «Oh immensa vergogna»
esclama Monico. «Siamo una folla e siamo vinti da uno,
e appena uomo. Eppure lui è un vero uomo,
noi con la nostra viltà siamo quello che lui era prima.
A che ci servono i corpi immensi, le forze doppie ed il fatto
che in noi la natura ha unito i due animali più forti?
Non credo che siamo figli di una dea, né figli di Issione,
un uomo tanto grande da nutrire speranze
su Giunone, se ci lasciamo sconfiggere da un mezzo uomo.
Rovesciategli addosso macigni, tronchi e montagne intere,
tirategli addosso le selve per soffocare il respiro longevo!
Che una selva gli schiacci la gola, e il peso varrà altrettanto
come una ferita.» E cio detto, trovò per caso
un tronco abbattuto dalle furiose folate dell’Austro e lo scagliò contro
il forte nemico. Diede l’esempio, e in poco tempo
l’Otri era senza piante, ed il Pelio non aveva più ombra.
Sepolto dall’immensa catasta di alberi, Ceneo smania,
e regge sulle dure spalle i tronchi ammassati.
Ma quando sulla testa e sul viso il peso cresce,
e il respiro non ha più aria da respirare,
cede a tratti, e invano cerca di sollevarsi
sopra l’aria e scuotere i tronchi gettatigli addosso:
a tratti riesce a muoverli, come se l’alto Ida che adesso vediamo
fosse scosso da un terremoto. La fine è incerta:
alcuni raccontano che sotto il peso degli alberi
il corpo fu inabissato nel Tartaro vuoto;
ma il figlio di Ampice nega, perché aveva visto
uscire da sotto la catasta nell’aria limpida
un uccello con le ali fulve, che vidi per la prima e ultima volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

E come Mopso lo vide perlustrare con volo lieve il campo dei suoi,
e risuonare intorno con grandi strida,
seguendolo insieme con gli occhi e con l’anima,
gli disse: «Salve, gloria dei Lapiti, tu che sei stato
grandissimo uomo e ora sei uccello unico, Ceneo!».
Grazie al testimone il prodigio fu creduto; il dolore accrebbe la nostra collera;
eravamo indignati che un solo uomo fosse stato ucciso da tanti nemici,
e non cessammo di sfogare il dolore col ferro,
prima che una parte di loro morisse e gli altri li
portassero via la notte e la fuga.

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