Ermafrodito e la ninfa Salmacide

Ermafrodito e la ninfa Salmacide

Il racconto del mito di Ermafrodito è tratto da Ovidio, Metamorfosi, IV 284-388, ed è collegato al nostro post Ermafrodito e altri esseri bisessuali.

 

 

 

 

 

 

Vi voglio intrattenere piuttosto
con il piacere della novità: perché abbia pessima fama
la fonte Salmacide e perché snervi e ammollisca con le sue acque
fiacche le membra immerse. La causa è oscura, ma il suo potere ben noto.
Nelle grotte dell’Ida le Naiadi allevavano un figlio
di Mercurio e della dea di Citera; l’aspetto era tale
che in lui si riconoscevano il padre e la madre;
e anche il nome prese da entrambi loro.

Quando compì quindici anni, abbandonò i monti
natii, e lasciato l’Ida che l’aveva allevato, godeva
a vagare in terre ignote, a vedere fiumi
ignoti; la curiosità alleggeriva la sua fatica.
Andò nelle città di Licia, e nella Caria vicina
alla Licia, e vide un lago lucente di acqua limpida
fino al fondo. Non c’erano canne palustri,
né alghe sterili o giunchi dalla cima aguzza.
L’acqua è trasparente, ma il bordo del lago
è cinto da zolle vive e da erbe sempre
verdi. Vi abita una ninfa che non si dedica
alla caccia, non piega l’arco e non fa gare
di corsa; è la sola non nota alla rapida Diana.
Si dice che spesso le sue sorelle dicevano:
«Salmacide, prendi un giavellotto o una faretra dipinta,
alterna i tuoi ozi con la caccia faticosa».
Ma lei non prende giavellotti o faretre dipinte,
non alterna i suoi ozi con la caccia faticosa;
ma ora bagna nella sua fonte le belle membra,
ora si liscia i capelli col pettine di legno del Citoro,
e chiede all’acqua, specchiandosi, cosa le dona;
ora, col corpo avvolto in un manto diafano,
si sdraia sulle morbide fronde o sull’erba morbida;
spesso raccoglie fiori; e anche allora li raccoglieva, per caso,
quando vide il ragazzo e, vistolo, desiderò di averlo;
ma non gli si avvicinò, per quanto fosse ansiosa,
prima di essersi tutta acconciata e avere aggiustato il velo,
costruita un’espressione e guadagnato di sembrare bella.

Poi cominciò a parlare: «Ragazzo degnissimo
di essere creduto un dio, se lo sei, sei Cupido;
se sei mortale, beati i tuoi genitori,
felice tuo fratello e fortunata, se l’hai,
tua sorella e la nutrice che ti offrì il petto.
Ma di gran lunga più felice di tutte
se hai una fidanzata, se darai a qualcuna l’onore
della fiaccola nuziale. Se l’hai, sia furtivo
il mio piacere, se no, sarò io: entriamo nello stesso letto!».
Dopo queste parole, tacque la naiade, ed il ragazzo
arrossì — non sapeva cos’era l’amore — ma gli donava arrossire.
È questo il colore dei pomi che pendono da un albero soleggiato,
o dell’avorio tinto, o della luna che rosseggia sotto il suo candore,
quando risuonano invano i bronzi in suo aiuto.

Alla ninfa che gli chiedeva senza fine baci,
da sorella almeno, e tendeva le mani al collo eburneo,
disse: «Smettila, o scappo via da te e da questo luogo!».
Tremò Salmacide e disse: «Ti lascio libero il posto,
straniero»; voltò le spalle e finse di andarsene,
voltandosi indietro a guardarlo, e si nascose
in una macchia nascosta, e s’inginocchiò. Ma il ragazzo,
pensando di essere inosservato nel bosco vuoto
gira di qua e di là, e bagna la punta dei piedi
e poi fino al tallone nelle onde che lo lambiscono,
e senza indugio, attirato dalla temperatura dell’acqua
carezzevole, depone dal tenero corpo le vesti.

Allora sì che le piacque, e Salmacide arse
dal desiderio della nuda bellezza. Le brillano gli occhi
come quando risplende nitido il Sole nel puro cerchio
riflesso nell’immagine di uno specchio frapposto.
A fatica sopporta l’indugio e differisce la gioia;
desidera abbracciarlo e a stento nella sua follia si trattiene.
Lui, colpendo il corpo col cavo delle mani, salta
agilmente nell’acqua e, muovendo le braccia con moto alterno,
traspare nelle acque limpide, come chi copre
con lucido vetro una statua d’avorio o gigli candidi.
«Ho vinto, è mio» esclama la ninfa, e getta
lontano tutte le vesti, e si lancia in mezzo all’acqua,
e afferra il ragazzo ritroso e gli strappa a forza dei baci;
insinua le mani e gli tocca il petto
contro la sua volontà, e gli si stringe
ora di qua, ora di là. Alla fine, benché resista e voglia scivolar via,
lo avvolge come un serpente afferrato dall’aquila
regale, che lo porta in cielo: appeso, le lega il collo
e le zampe, e con la coda avvolge le ampie ali;
come l’edera usa avvolgere i lunghi tronchi,
o il polipo che sott’acqua afferra un nemico,
allungando da tutte le parti i tentacoli.
Il nipote di Atlante insiste a negare
alla ninfa la gioia sperata, ma lei lo incalza,
e aderendogli con tutto il corpo, gli disse: «Lotta
pure, cattivo, non mi sfuggirai. Voi, dèi, fate
che non venga mai il giorno che mi stacchi da lui e lui da me».

Gli dèi esaudirono i suoi desideri; si mescolano
i corpi dei due e assumono un solo aspetto;
come due rami, se si rivestono di corteccia, si vedono
col tempo saldarsi e crescere insieme, allo stesso modo,
quando le membra si sono unite in un abbraccio tenace,
non sono più due, ma una forma doppia, e non può più dirsi
femmina né ragazzo, ma sembra entrambi e nessuno dei due.
Quando vede che le acque limpide in cui era sceso maschio
lo avevano fatto uomo a meta e rammollito il suo corpo,
tendendo le mani, con voce non più virile,
Ermafrodito disse: «Padre mio e madre mia,
concedete a vostro figlio, che ha il nome di entrambi,
che qualunque uomo arriva a queste onde ne esca
mezzo uomo, e si rammollisca appena toccata l’acqua».
Entrambi i genitori, commossi, ratificarono le parole
del figlio biforme, e versarono nella fonte il contagio.
(Ovidio, Metamorfosi, IV 284-388)

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