Monthly Archives: Giugno 2022

Geografia dell’Oltretomba

Geografia dell’Oltretomba

L’Oltretomba non è, nella concezione classica, il luogo in cui i giusti ricevono il premio delle loro virtù e i malvagi sono condannati a espiare le loro colpe; è, invece, la sede buia e nebbiosa in cui erano destinati a rimanere per sempre, in forma di semplici ombre, tutti i defunti. Il regno dei morti è immaginato talora ai confini del mondo, oltre l’oceano; più spesso è posto sotto la terra. Il suo ingresso è delimitato dall’Acheronte (fiume del dolore), in cui si versavano il Piriflegetonte (fiume del fuoco) e il Cocito (fiume del lamento), che si diramava dallo Stige (fiume dell’odio). È credenza diffusa che solo dopo aver ricevuto gli onori funebri l’anima del defunto potesse attraversare l’Acheronte e trovare finalmente pace. A traghettare le anime dei morti nell’Ade è il vecchio Caronte a bordo della sua imbarcazione: per pagargli il costo della traversata, ai morti veniva posto nella bocca un obolo: proprio in conseguenza di ciò, il nome di questa antica moneta greca ha assunto per noi il significato di “modesta offerta in denaro”. A guardia della porta dell’Ade era talora rappresentato Cerbero, mostruoso cane a tre teste. In altre versioni si narra che quando le ombre scendono al Tartaro, il cui ingresso principale si trova in un bosco di bianchi pioppi presso il fiume Oceano, ciascuna di esse è munita di una moneta, che i parenti le hanno posto sotto la lingua. Possono così pagare Caronte, il tristo nocchiero che guida la barca al di là dello Stige. Questo lugubre fiume delimita il Tartaro a occidente e ha come suoi tributari l’Acheronte, il Flegetonte, il Cocito, l’Averno e il Lete. Le ombre prive di denaro debbono attendere in eterno sulla riva, a meno che non riescano a sfuggire a Ermete, la loro guida, introducendosi nel Tartaro da un ingresso secondario, come Tenaro in Laconia o Aorno nella Tesprozia.

Un cane con tre teste (o con cinquanta teste, come altri sostengono), chiamato Cerbero, monta la guardia sulla sponda opposta dello Stige, pronto a divorare i viventi che tentino di introdursi laggiù, o le ombre che tentino di fuggire. Nella prima zona del Tartaro si trova la triste Prateria degli Asfodeli, dove le anime degli eroi vagano senza meta tra la turba dei morti meno illustri che svolazzano qua e là come pipistrelli, e dove soltanto Orione ha ancora cuore di cacciare ombre di daini. Ciascuna di loro preferirebbe vivere come servo di un umile contadino anziché soggiornare come sovrano nel Tartaro. Unico loro piacere è bere il sangue delle libagioni offerte dai vivi: poi si sentono ancora uomini, almeno in parte. Oltre questa prateria si trovano l’Erebo e il palazzo di Ade e di Persefone. Alla sinistra del palazzo, un bianco cipresso ombreggia la fonte di Lete, dove le ombre comuni si radunano per bere. Ma le ombre iniziate evitano quelle acque e preferiscono dissetarsi alla fonte della Memoria, ombreggiata da un pioppo bianco, e la cui acqua dà loro certi vantaggi sugli altri compagni di sventura. Lì accanto, le ombre appena scese nel Tartaro vengono giudicate da Minosse, Radamante ed Eaco, in un punto dove tre strade si incrociano. Radamante giudica gli asiatici ed Eaco gli europei; i casi più difficili vengono sottoposti a Minosse. Al termine di ogni giudizio le ombre vengono indirizzate lungo una delle tre strade: la prima conduce alla Prateria degli Asfodeli dove si riuniscono coloro che non furono né virtuosi né malvagi; la seconda al campo di punizione del Tartaro, destinata ai malvagi; la terza ai Campi Elisi destinati ai virtuosi.

I Campi Elisi, su cui impera Crono, si trovano presso il palazzo di Ade e il loro ingresso è accanto alla fonte della Memoria; essi sono un luogo di gioia dove splende perpetuo il giorno, non vi è mai gelo né cade la neve, ma si svolgono svaghi a suon di musica e le ombre che vi trovano possono rinascere e tornare sulla terra se ciò loro aggrada. Poco più oltre si trovano le Isole Beate, riservate a coloro che nacquero tre volte e ogni volta vissero virtuosamente. Taluni dicono che un’altra isola fortunata, chiamata Leuce, si trovi nel Mar Nero, di fronte alle foci del Danubio; essa è boscosa e ricca di selvaggina. Là albergano le ombre di Elena e di Achille e declamano versi di Omero agli eroi che presero parte agli eventi da lui celebrati. Nella concezione più antica l’anima (in greco psychè) era materialisticamente intesa come il respiro, il soffio vitale necessario a infondere energia nel corpo. Dopo la morte essa si trasferiva nell’Ade. Qui del corpo sopravviveva solo un’ombra inconsistente: quando Ulisse nella sua discesa agli Inferi tenta di abbracciare l’anima di sua madre, le sue braccia tornano a chiudersi vuote sul suo petto. Non vi sono scheletri o corpi in decomposizione; ma non v’è neppure speranza o consolazione. A diffondere la credenza in un aldilà caratterizzato da un sistema di premi e di castighi riservati ai defunti a seconda del comportamento da essi tenuto in vita furono, in epoca posteriore, soprattutto le dottrine mistiche e i movimenti misterici (per esempio l’orfismo, che prende nome dal suo mitico fondatore, Orfeo). Secondo alcune credenze, il soggiorno dell’anima nell’Ade era soltanto transitorio, poiché essa era destinata a reincarnarsi in altri esseri viventi (metempsicosi).

Ade significa “invisibile”. È il nome del dio, ma anche del regno dei morti. Il dio è noto anche come Plutone (il nome con cui poi fu venerato a Roma): dal greco plùtos (“ricchezza”), per le ricchezze che la terra serba nelle sue viscere, o forse per l’abbondanza di sudditi su cui egli aveva potere nell’oltretomba. Sua sposa era Persefone (la romana Proserpina), da lui rapita sulla Terra. Ade, che è orgoglioso e geloso delle proprie prerogative, sale raramente nel Mondo Superiore, e soltanto per sbrigare faccende urgenti o mosso da improvvisa brama lussuriosa. Un giorno abbacinò la Ninfa Minta con lo splendore del suo cocchio dorato trainato da quattro cavalli neri, e l’avrebbe sedotta senza difficoltà se la regina Persefone non fosse apparsa appena in tempo per trasformare Minta in un’erba menta dal dolce profumo. In un’altra occasione Ade tentò di violentare la Ninfa Leuce, che fu trasformata nel bianco pioppo presso la fontana della Memoria. Ade non permette ad alcuno dei suoi sudditi di fuggire, e pochi di coloro che visitano il Tartaro possono tornare vivi sulla terra per descriverlo. E ciò fa di Ade il più odiato di tutti gli dèi. Ade non sa che cosa accade nel Mondo Superiore o sull’Olimpo; gli giungono soltanto frammentarie notizie quando i mortali tendono la mano sopra la terra e lo invocano con giuramenti o maledizioni. Tra le cose a lui più care vi è un elmo che lo rende invisibile, dategli in segno di gratitudine dai Ciclopi quando egli consentì a liberarli per ordine di Zeus. Tutte le ricche gemme e i preziosi metalli celati sottoterra appartengono ad Ade, ma egli non ha possedimenti sopra la superficie terrestre, salvo certi oscuri templi in Grecia e, forse, una mandria di bestiame nell’isola Erizia; mandria che, secondo altri, apparterrebbe invece a Elio.

La regina Persefone sa essere benigna e misericordiosa. Essa è fedele ad Ade, ma non ha avuto figli da lui e gli preferisce la compagnia di Ecate, dea delle streghe. Zeus stesso onora Ecate tanto che non le tolse l’antica prerogativa di cui sempre godette: di poter concedere o negare ai mortali qualsiasi dono desiderato. Essa ha tre corpi e tre teste: di leone, di cane e di giumenta. Tisifone, Aletto e Megera, le Erinni o Furie, vivono nell’Erebo e sono più vecchie di Zeus e di tutti gli olimpici. Loro compito è ascoltare le lagnanze mosse dai mortali contro l’insolenza dei giovani nei riguardi dei vecchi, dei figli nei riguardi dei genitori, degli ospitanti nei riguardi degli ospiti e delle assemblee dei cittadini nei riguardi dei supplici, e di punire tali crimini inseguendo senza posa i colpevoli, di città in città, di regione in regione. Le Erinni sono vegliarde, anguicrinite, con teste di cane, corpi neri come il carbone, ali di pipistrello e occhi iniettati di sangue. Stringono nelle mani pungoli dalle punte di bronzo e le loro vittime muoiono in preda ai tormenti. Non conviene citare il loro nome nel corso di una conversazione; ecco perché di solito le si chiama Eumenidi, che significa «le gentili», e si parla di Ade come di Plutone o Pluto, cioè il “ricco”.

Alcune parti di questo post sono riassunte dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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La rivolta dei Giganti

La rivolta dei Giganti

Furibondi perché Zeus aveva confinato nel Tartaro i Titani, loro fratelli, certi altissimi e terribili Giganti, con lunghi capelli inanellati e lunghe barbe e code di serpenti in luogo dei piedi, complottarono per dare l’assalto al Cielo. Essi erano ventiquattro, nati dalla Madre Terra a Flegra in Tracia. All’improvviso, essi agguantarono massi e tizzoni ardenti e li scagliarono verso l’alto, dalle vette delle loro montagne, cosicché gli dèi dell’Olimpo si trovarono a mal partito. Era, con aria cupa, profetizzò che i Giganti non sarebbero mai stati uccisi da un dio, ma soltanto da un mortale che vestiva pelle di leone, e che anche costui non sarebbe riuscito nell’intento se non avesse trovato, prima dei Giganti stessi, una certa erba che rendeva invulnerabili e cresceva in un luogo segreto sulla terra. Zeus subito si consigliò con Atena e la mandò a informare Eracle (il mortale vestito di pelle di leone cui Era voleva chiaramente alludere) di come stavano le cose; poi proibì a Eos, a Selene e a Elio di brillare per qualche tempo. Alla debole luce delle stelle. Zeus vagò in una regione indicatagli da Atena, trovò l’erba magica e la portò in ciclo.

Gli olimpici poterono allora affrontare in battaglia i Giganti. Eracle scoccò la sua prima freccia contro Alcioneo, il capo dei nemici. Egli cadde al suolo e subito si rialzò, redivivo, poiché quella era la sua terra natale di Flegra. «Presto, nobile Eracle!» gridò Atena, «portalo in un’altra regione!» Eracle si caricò Alcioneo sulle spalle e lo portò oltre il confine della Tracia, eliminandolo poi a colpi di clava. Porfirione balzò in cielo spiccando un salto dalla grande piramide di pietre che i Giganti avevano ammucchiate, e nessuno degli dèi seppe tenergli testa. Soltanto Atena si chiuse in difesa. Passandole rapidamente dinanzi, Porfirione si precipitò su Era e cercò di strangolarla; ma ferito al fegato da una freccia scoccata tempestivamente dall’arco di Eros, la sua furia omicida si trasformò in brama lussuriosa e lacerò la veste di Era. Zeus, vedendo che il gigante stava per oltraggiate sua moglie, divenne pazzo di gelosia e abbatté Porfirione con una folgore. Porfirione si rialzò subito, ma Eracle, ritornato appena in tempo a Flegra, lo ferì mortalmente con una freccia. Frattanto, Efialte aveva impegnato Ares in battaglia e l’aveva costretto a piegare le ginocchia, ma Apollo scoccò una freccia nell’occhio sinistro del malvagio e chiamò Eracle, che subito gli scoccò un’altra freccia nell’occhio destro. E così morì Efialte.

Ora, ogni qual volta un dio ferisce un Gigante (come quando Dioniso abbatté Eurito con un tirso o Ecate bruciacchiò Clizie con le sue torce o Efesto ustionò Miniante con un ramaiolo di metallo incandescente o Atena colpì il lubrico Pallade con una pietra) è sempre Eracle che deve vibrare il colpo mortale. Demetra e la dea Estia, amanti della pace, non presero parte alla battaglia, ma rimasero in disparte, torcendosi le mani, angosciate. Le Moire, invece, scagliavano pestelli di rame cogliendo spesso nel segno. Scoraggiati, i Giganti superstiti si rifugiarono sulla terra e gli olimpici li inseguirono. Atena scagliò un gran masso contro Encelado che, colpito in pieno, si appiattì e divenne l’isola di Sicilia. Posidone tagliò via un pezzo di Coo con il suo tridente e lo scagliò verso Polibute: e quel pezzo di carne divenne l’isoletta di Nisiro, presso la quale egli giace sepolto. Gli altri Giganti tentarono di organizzare l’ultima resistenza a Bato, presso Trapezunte in Arcadia, dove il suolo ancora brucia e ossa di Giganti vengono spesso alla luce tra le zolle smosse dagli aratri. Ermes, preso in prestito l’elmo di Ade dava l’invisibilità, abbatté Ippolito, e Artemide trapassò Grazione con una freccia; mentre i proiettili infuocati delle Moire bruciavano le teste di Agrio e di Toante, Ares con una lancia e Zeus con la sua folgore si sbarazzarono degli altri, benché toccasse a Eracle di dare il colpo di grazia a ogni Gigante caduto. Ma altri dicono che la battaglia si svolse nei campi Flegrei, presso Cuma, in Italia.

Sileno, il satiro nato dalla Terra, si vanta di aver preso parte alla lotta contro i Giganti a fianco del suo pupillo Dioniso, uccidendo Encelado e spargendo il panico tra gli avversari col raglio del suo vecchio asino; ma Sileno è sempre ubriaco e non sa più distinguere il vero dal falso.

 

 

La guerra tra Olimpici e Giganti, riassunta dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

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Il mito di Zagreo

Il mito di Zagreo

Zagreo (in greco antico: Ζαγρεύς, Zagreús) fu in origine una divinità agreste e ctonia, probabilmente di derivazione cretese. Il nome significa “cacciatore di selvaggina” e, più precisamente, alluderebbe a un cacciatore che non uccide le sue prede, ma le tiene in vita, per poi dilaniarle nei culti dionisiaci. Il suo mito fu al centro della religione orfica. Il mito di Zagreo, che possiede evidenti similitudini con quello di Osiride, può essere interpretato come il simbolo della morte della vegetazione in inverno e della sua rinascita in primavera. Nei misteri, Dioniso è, infatti, associato alle dee della fertilità, Demetra e Persefone, di cui sarebbe figlio Zagreo.

Il mito orfico si basa sulla concezione arcaica della colpa ereditaria. Secondo l’orfismo, infatti, l’umanità parteciperebbe della natura malvagia dei Titani e di quella divina di Zagreo. L’elaborazione orfica in chiave escatologica e soteriologica trova nella purificazione e nelle pratiche rituali il mezzo attraverso cui l’anima può ricongiungersi con il divino.

Ecco l’estratto dalle Dionisiache in cui si parla di Zagreo.

«il ventre di Persefone si gonfia di un frutto fecondo
e genera Zagreo, bambino munito di corna, che sale, lui solo,
sul trono celeste di Zeus; con la sua piccola mano
vibra il fulmine, è nelle sue mani puerili
di un neonato che si librano le saette.
Ma non occupa per molto il trono di Zeus, perché i Titani,
astuti, cosparso il volto con del gesso ingannatore,
spinti dalla rabbia profonda e spietata di Era,
lo uccidono con un pugnale venuto dal Tartaro,
mentre guardava la sua falsa immagine riflessa nello specchio.»
(Nonno di Panopoli. Dionisiache VI, 165-172. Traduzione di Daria Gigli Piccardi, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 483-485)

Secondo il racconto narrato da Nonno di Panopoli nel libro VI delle Dionisiache, Zeus generò in segreto suo figlio Zagreo in Persefone, prima che essa fosse condotta nell’Oltretomba da suo zio Ade. Egli affidò ai Cureti cretesi figli di Rea, o secondo altri ai Coribanti, il compito di custodire la culla di Zagreo nella grotta Idea e là essi gli danzavano attorno, battendo le loro armi l’una contro l’altra, come già avevano fatto attorno alla culla di Zeus sul Ditte. Ma i Titani, nemici di Zeus, sbiancandosi il volto col gesso per rendersi irriconoscibili, attesero finché i Cureti furono addormentati e a mezzanotte indussero Zagreo a seguirli, offrendogli dei giocattoli: un cono, un rombo, mele d’oro, uno specchio, un astragalo e un batuffolo di lana. Zagreo diede prova di grande coraggio quando poi i Titani gli balzarono addosso minacciosi e si sottopose a varie metamorfosi per trarli in inganno: divenne successivamente Zeus avvolto in pelle di capra, Crono che fa cadere la pioggia, un leone, un cavallo, un serpente cornuto, una tigre e un toro. A questo punto i Titani lo afferrarono saldamente per le corna, gli affondarono i denti nella carne e lo divorarono vivo. Atena interruppe l’orrendo banchetto poco prima della fine e, impadronitasi del cuore di Zagreo, lo rinchiuse in ma figura di gesso, nella quale soffiò la vita; e così Zagreo divenne immortale. Le sue ossa furono raccolte e sepolte a Delfi, e Zeus uccise i Titani colpendoli con la folgore. I Titani, sconfitti, furono fulminati e dalle loro ceneri – o, più precisamente, dal fumo di esse – nacquero gli uomini.

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