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“Filosofe? Ce ne sono eccome, solo che gli uomini non le leggono” di Donatella Borghesi

“Filosofe? Ce ne sono eccome, solo che gli uomini non le leggono” di Donatella Borghesi

E ora che l’Enciclopedia Treccani sceglie “femminicidio” come parola dell’anno appena finito, ora che il film di Paola Cortellesi è tra i più visti nella storia del cinema italiano, ora che la consapevolezza femminile della propria forza propositiva comincia a essere coscienza condivisa, ora che dopo l’emozione seguita alla morte di Giulia Cecchettin gli uomini hanno cominciato a interrogarsi sulla cultura patriarcale o post-patriarcale che dir si voglia, qual è lo stato delle cose del rapporto tra i sessi? “E ora?” è anche il titolo del primo capitolo del saggio appena uscito – politicamente scorretto, lo definisce l’autrice – della filosofa Annarosa Buttarelli, Bene e male sottosopra, la rivoluzione delle filosofe (Tlon editore). Formatasi nel pensiero della differenza sessuale, sostenitrice della “presa di autorevolezza” con il suo libro Sovrane e fondatrice della Scuola di alta formazione per donne di governo, Buttarelli si chiede da tempo perché gli uomini non ascoltano, non si interessano al pensiero delle donne. Fermi alla “questione femminile”, ragionano solo in termini di parità, diritti, quote, cooptazione. Di emancipazione, insomma, di integrazione nel sistema, senza rendersi conto che da due secoli le donne chiedono sì uguaglianza e libertà, ma “fanno” anche filosofia, propongono una diversa concezione delle relazioni e della politica, e soprattutto un altro approccio di pensiero, che possa diventare valido per tutti, uomini e donne. «Per quale ragione le pensatrici di tutti i tempi non sono state ascoltate, né dai filosofi accademici né dalla cultura corrente del momento?», si chiede Buttarelli. «È il risultato di una misoginia millenaria, che ha svalutato la donna come essere umano pensante, e ha sempre considerato il pensiero maschile come universale».

Quanti docenti di filosofia maschi hanno letto Nonostante Platone di Adriana Cavarero o Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi? Di questa misoginia che esclude le pensatrici dal canone filosofico accademico Buttarelli ne trova conferma anche nell’ultima opera di Massimo Cacciari, Metafisica concreta (edito da Adelphi), che vede la sopravvivenza della filosofia – da tempo in crisi rispetto alla sua funzione – in un legame con l’essere nel momento in cui vive, non l’essere astratto ma “l’essente”. «Peccato che le pensatrici hanno sempre riflettuto proprio sulla metafisica concreta della vita quotidiana: la cura, la ricettività interiore, i sentimenti, l’ascolto sono patrimonio della differenza femminile, un pensiero che parte dall’esperienza e si fonda sulla relazione, ma di questo nel lavoro di Cacciari non c’è riconoscimento», osserva Buttarelli, che nel suo libro affronta il grande tema etico del bene e del male, oggi così sensibile, con pensatrici come Simone Weil e Hannah Arendt, María Zambrano e Carla Lonzi, come la psicoanalista Françoise Dolto o la scrittrice Flannery O’Connor, voci di un “sottosopra” filosofico che individua nel pensiero antitetico, duale, il responsabile della crisi attuale della civiltà europea-occidentale.

«È venuto il tempo che anche gli uomini si occupino delle opere delle donne: le leggano, le guardino, le studino, ne scrivano». Sono le parole di Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri di Siena, stanca di vedere come a studiare le autrici siano quasi sempre le donne. «Come se per molti uomini di cultura fosse un’impresa da cervello balzano occuparsi delle opere delle autrici, facendo quello che noi invece facciamo da sempre con gli autori». Daniela Brogi fa parte di quella generazione femminile che negli ultimi dieci anni è entrata in gran numero nelle università, nell’editoria, nell’informazione e nelle professioni, una generazione ancora giovane da cui ci si aspetta una rivoluzione culturale segnata dalla loro identità di genere. Nel suo saggio Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022) analizza quanto è stato concesso loro nei secoli. Oltre alla violenza primaria che è stata esercitata vietando o svalutando la loro possibilità di occupare da soggetti uno spazio pubblico, si è aggiunta una seconda violenza, la svalutazione della narrativa che racconta gli spazi marginali del loro mondo: «E così raccontare di luoghi domestici, di memorie famigliari, del mondo della madre, dell’autobiografia, di storie d’amore o del corpo, è stata a lungo una scrittura creduta inferiore, se praticata dalle autrici». Oggi, dopo aver man mano conquistato gli interstizi, le smarginature nel sistema maschile, le donne che scrivono e che pensano sono in uno stato di “fuori campo attivo”, per usare un’immagine cinematografica. «Non si tratta più di abbattere il tetto di cristallo, ma anche le pareti», dice ancora Daniela Brogi. «E invece nel sistema universitario domina ancora l’automatismo della cultura patriarcale. Perché il patriarcato non è solo un sistema giuridico ma una postura culturale, una mentalità che riguarda il simbolico, e sopravvive quindi al mutare delle leggi. Anche se le donne sono presenti in università, gli uomini tendono a parlarsi, ascoltarsi e riconoscersi solo tra loro. Per cui quando si cerca un intellettuale per un convegno o un seminario è quasi sempre senza apostrofo…».

Appartiene alla generazione delle quarantenni anche Giorgia Serughetti, docente di Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca, ora in libreria con La società esiste (Tempi Nuovi). «Quando ho studiato io, ricordo di non aver mai letto un libro scritto da una donna, eppure eravamo alla fine degli anni Novanta… Allora l’unico nome che bucava era quello della Arendt. Oggi con i fondi del Pnrr ci saranno 17 borse di studio per gli studi di genere, che sta gestendo Francesca Recchia Luciani dell’Università di Bari. Partiti prima nelle scienze sociali, gli studi di genere hanno portato un grande cambiamento nel tessuto accademico. Il problema è che questo patrimonio di ricerca realizzato dalle docenti che si mettono in rete, che si sostengono e si scambiano informazioni, non suscita interesse da parte degli uomini. Perché in loro domina ancora il pregiudizio per cui, parlando solo di donne si perde di interesse generale, e loro, le donne, rimangono situate nella loro parzialità. Lo aveva capito bene Simone De Beauvoir, parlando dell’uomo che si considera il Soggetto e vede nella donna l’Altro: la donna non può assurgere a voce universale, perché non riesce a separarsi dalla propria specificità di genere. Molte donne nel passato ci hanno rinunciato per essere considerate alla pari, per non essere sbalzate fuori dai giochi. Il femminismo ha cambiato però le carte. Oggi penso che quello che può venire di buono nella politica verrà dalle donne e che un cambio di passo sta già avvenendo. Non per le qualità essenzialiste dell’essere donna, ma per la maggiore sensibilità a capire i cambiamenti, a captare anche i segnali invisibili. È possibile che ai politologi sfugga che il movimento delle donne è il più grande movimento collettivo e che ha una forza dirompente? Si analizzano i motivi per cui si è rotto l’ordine neoliberista, i populismi di destra e di sinistra, la crisi della democrazia… Ma a nessuno viene in mente di prendere in considerazione nella discussione politica anche il pensiero femminista».

Qualche uomo però ci sta provando a misurarsi con il pensiero delle donne. Tra questi, Riccardo Fanciullacci, quarantacinque anni, docente di Filosofia morale all’Università degli studi di Bergamo. «Oggi non è più così raro trovare corsi dedicati a una pensatrice importante come Hannah Arendt o che discutono le posizioni di Judith Butler o di Martha Nussbaum. Giusto l’anno scorso, ho dedicato le mie lezioni a Iris Murdoch e Simone Weil. Resta però da capire quanto ci si lasci trasformare dal loro pensiero e non ci si limiti a includere nuove figure in uno schema che è sempre lo stesso. Per questo mi torna spesso in mente quando Luisa Muraro ha chiesto se gli accademici siano disposti a imparare da una donna che non sia morta e che dunque non voglia farsi trattare come un monumento. Per imparare da qualcuno bisogna saper dare autorità alla sua parola, ma in questo caso bisogna essere diventati capaci di dare autorità a una donna, e questo vuol dire aver fatto un passo oltre le abitudini e gli schemi patriarcali. Si tratta di una nuova etica, nel senso di un nuovo modo di abitare le relazioni tra i sessi. Ho avuto la fortuna di incontrare il pensiero della differenza sessuale non solo attraverso i libri ma frequentando i luoghi in cui viene elaborato, come il Seminario organizzato ogni autunno all’Università di Verona dalla comunità di Diotima e la Libreria delle donne di Milano. Grazie alle relazioni nate in questi luoghi, ho imparato a non slegare il movimento del pensiero dal riferimento a ciò che ci capita e arriva a toccarci nella vita. E questo lo porto anche nei miei corsi». Fanciullacci ha curato con Stefania Ferrando il libro di Lia Cigarini La politica del desiderio e altri scritti, Orthotes 2020. Nel dialogo conclusivo, Cigarini sostiene che la politica maschile ha mancato l’appuntamento con il pensiero delle donne e quindi con l’occasione di elaborare in maniera positiva la fine del patriarcato. È d’accordo? «In riferimento alla politica, soprattutto quella istituzionale, direi senz’altro di sì. E davanti alle grandi novità di oggi, a volte mi domando se noi uomini saremo capaci di una risposta all’altezza. Le studentesse chiedono che si parli delle donne in filosofia, in letteratura, nelle scienze, e molti dei loro compagni sono d’accordo: diventa difficile non confrontarsi con queste richieste. E se qualcuno prosegue imperterrito con il vecchio canone, ecco che quelle stesse studentesse danno vita a blog o a riviste. Questa è una bella eredità del movimento delle donne». Di femminismi, però, ce ne sono tanti sulla scena, da Non una di meno alla galassia delle teoriche del gender, al movimento Lgbtq+… «Sì, è vero, ma preferisco non entrare nel dibattito, che ha spesso un forte carattere ideologico. Ho imparato a non farmi catturare dal discorso corrente e cerco di offrire la possibilità di non prendere posizioni preconfezionate. Preferisco portare l’attenzione su alcuni temi: la politica non si riduce a lotta per il potere, o il conflitto alla guerra o il linguaggio a strumento di regolazione e controllo. In questo modo ottengo un risveglio di creatività piuttosto che schieramenti». «Tutto è nato un po’ per caso, tipo tre amici al bar. Ci si diceva: ma vi rendete conto che nei manuali universitari non ci sono donne?». A iniziare il racconto dell’avventura del programma di video-lezioni “Donne e pensiero politico” dell’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino è il suo responsabile scientifico, il torinese anche lui quarantenne Federico Trocini, docente di Storia del pensiero politico all’Università di Bergamo. Quando è scoppiato il Covid, in tre si sono messi a lavorare al progetto delle conferenze: oltre a Trocini, Cristina Cassina dell’Università di Pisa e Giuseppe Sciara dell’Università di Bologna. Il risultato, 70 video su YouTube – uno alla settimana – e 100mila visualizzazioni, un successo imprevisto e imprevedibile. «Credo che il progetto abbia funzionato perché abbiamo lavorato molto sul format: stessa grafica, sigla riconoscibile, evitare toni professorali e scegliere lo stile diretto della comunicazione social. E una struttura uguale per tutte e 70 le pensatrici: focus biografico, contesto storico-sociale e infine approfondimento del pensiero politico». La scelta delle protagoniste è stata fatta attraverso le proposte che venivano dalla rete accademica su tutto il territorio nazionale ma anche dalle reti personali, e per i relatori – quasi tutti giovani, in gran parte ragazze – si è puntato sui dottorandi e gli assegnisti. «Il nostro è un programma divulgativo», precisa Trocini, «con un’impostazione chiara: solo pensatrici e non attiviste, non solo occidentali e non solo bianche, e senza guardare al loro schieramento di parte. Abbiamo scelto tra pensatrici di matrice liberale, cattolica, socialista, sfidando la consuetudine di considerare il pensiero femminista coincidente con l’appartenenza a sinistra. E anche che fossero necessariamente femministe: Madame de Staël, per esempio, non ha mai parlato delle donne ma è stata una grande pensatrice politica…». Qualche nome, oltre alle tante già note come Rosa Luxemburg o Carole Pateman: dall’afroamericana Kimberlé Crenshaw, che ha coniato il termine di “intersezionalità”, all’egiziana Nawal El Saadawi. Certo i tre ragazzi al bar non si aspettavano questo successo: dopo pochi mesi il programma è stato acquistato da un editore spagnolo (Altamarea), e in Italia Carocci sta comprando i diritti. Nel 2025 avremo così la prima collana Storia del pensiero politico femminile, con oltre 16 volumi. Seguirà un manuale per Mondadori Università. Chapeau. E segno che una nuova generazione di intellettuali uomini si sta muovendo accanto alle loro compagne di studio e di insegnamento. Forse il cambiamento di passo tanto desiderato è davvero avviato.

Donatella Borghesi su “Il Foglio”, 22 gennaio 2024 (noi l’abbiamo ripreso dal sito della Libreria delle donne di Milano, che ringraziamo! Andate regolarmente sul loro sito: ci sono sempre idee e articoli interessanti!)

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L’inferiorità femminile è una costruzione epistemica

L’inferiorità femminile è una costruzione epistemica

Diceva Thomas Hobbes che «gli Stati sono istituiti dai padri e non dalle madri di famiglia». Pur ammettendo – unico fra i pensatori moderni – una naturale uguaglianza fra i sessi in termini di forza e intelligenza, il filosofo inglese constatava, con il suo solito realismo, che a comandare sono sempre stati gli uomini. Inutile girarci intorno, il potere ha sempre avuto e sempre avrà una connotazione essenzialmente maschile, ci ricorda Hobbes. Sarebbe perciò irrealistico pensare che il sapere che l’Occidente ha prodotto sul potere non sia maschilista o patriarcale, come si dice in un gergo ormai desueto. Si tratta di rapporti di forza, direbbe Foucault sulla scorta di Nietzsche. I maschi hanno sempre comandato, ergo i maschi hanno pure dettato le regole di trasmissione di un sapere che sistematizza i termini di quel comandare.

Da Aristotele a Rousseau, senza soluzione di continuità, si afferma in esso quanto segue: il maschio è il soggetto adatto a decidere, comandare, governare; la femmina a obbedire. I discorsi in cui quel sapere si formulava non si presentavano come proclami ideologici o pamphlet polemici, non erano insomma libri autoprodotti. Erano, al contrario, autorevoli esiti del sapere dotto, legittimo, universale. Hanno configurato una tradizione, la cui efficacia ancora si riverbera nella nostra sgangherata contemporaneità. Per fortuna un po’ scalfita, l’efficacia di quella tradizione, dal lento mutamento dei rapporti di forza. Gli studi femministi, negli ultimi decenni, sono divenuti parte essenziale di tale mutamento, producendo un sapere che ha finalmente demistificato la pretesa di validità universale della tradizione.

Il libro di Giulia Sissa Lerrore di Aristotele – Donne potenti, donne possibili, dai Greci a noi (Carocci editore «Sfere», pp. 375, euro 29,00), prosegue con grande capacità analitica dei testi antichi e moderni, l’opera di demistificazione. Anzi, oltre a farci scoprire un Aristotele meno conosciuto – quasi divertente – ne traccia l’ininterrotta influenza nella cultura europea medievale e moderna, attraverso la sua canonizzazione da parte del cristianesimo, la sua rielaborazione da parte dei pensatori moderni, tutti – o quasi – ancora del suo parere per quanto riguarda le donne. Ciò che Aristotele disse sulle donne, ad esempio ritorna, quasi immutato, nel moderno Rousseau, il quale afferma che esse, per natura, devono obbedire al maschio, essere mogli docili e fedeli, perché così la natura vuole.

Nel percorrere analiticamente una simile continuità, il libro di Sissa fa emergere con chiarezza una cosa che a noi oggi pare davvero straordinaria, persino divertente se non fosse stata così influente: le autorevoli e spassionate trattazioni della differenza fra i sessi si presentano nella storia del sapere come oggettive e scientifiche, senza che mai a nessuno dei dotti compilatori – Aristotele, Epitteto, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Rousseau, solo per fare alcuni nomi di autori che Sissa analizza con grande acume – venisse in mente di essere un po’ di parte. Nessuna donna entrò mai nei dibattiti sulla “natura” femminile, sarà per questo che tale natura è descritta sempre in termini passivi, subordinati, infidi e inaffidabili?

Come a dire, ogni produzione di sapere ha al suo interno una specifica dimensione di potere. Il libro di Sissa ci conduce in un appassionante viaggio nella costruzione del regime di verità patriarcale, nella fase del suo stabilizzarsi scientifico. Se oggi siamo, a detta di molte autorevoli pensatrici femministe, alla fine del patriarcato – di cui i femminicidi, gli stupri sarebbero i feroci colpi di coda – l’epoca di Aristotele fu invece la fase in cui il sapere maschile sul mondo – e soprattutto sulle donne – divenne episteme, scienza. Tale episteme, inutile dirlo, deve ad Aristotele – il grande sistematizzatore del sapere greco antico – la sua fortuna. Giulia Sissa ci racconta la costruzione epistemica dell’inferiorità femminile, e la racconta attraverso una minuziosa analisi dei testi. Del resto, nonostante Aristotele fosse, come detto, un sistematizzatore, un elencatore, egli si rivelò anche uno straordinario fornitore di immagini, di metafore, di modi di pensare che restituiscono, attraverso una interessante «logica del concreto», che la differenza sessuale si dà nei corpi, per natura. Ci sono delle specifiche disposizioni fisiche che determinano le posizioni politiche: la passionalità, l’esuberanza, in una parola la virtù politica antica per eccellenza, l’andreia, è sinonimo di virilità, di ciò che per natura caratterizza gli uomini (aner). E tale natura immediatamente determina la cultura: gli uomini hanno il sangue caldo, ma proprio per questo sono coraggiosi, risoluti, adatti a governare. Le donne, invece, pur essendo intelligenti, hanno una «complessione fredda» – non sono stupide ma molli, incapaci di decidere, «superflue, inutili, pericolose. Sono un ostacolo nella lotta come nell’arena politica». Anatomia e fisiologia decidono insomma delle sorti politiche delle donne (e degli uomini). Guarda un po’, la differenza sessuale! Perché essa gode di così poca stima oggi? Perché viene accusata di essere “essenzialista”, biologista, escludente? Forse perché, come si evince da questo bellissimo libro, ne abbiamo sempre avuto a disposizione una versione patriarcale, maschile, androcentrica. Una lettura dell’anatomia e della fisiologia tutta a vantaggio di chi, in effetti, ne scriveva, ovvero i maschi. Quando si dice i rapporti di forza.

Eppure, la cultura greco-antica, oltre Aristotele, nella sua straordinaria complessità e ricchezza, ci tramanda anche dell’altro, non è solo sistematizzazione patriarcale della “natura”. Figure di donne forti e risolute, capaci di decidere e di agire, di consigliare e temperare gli eccessi passionali di maschi molto caldi, o di incitare all’azione giusta maschi indecisi, fanno da contraltare alla narrazione fisiologica di Aristotele, nel teatro, nella storiografia, nella poesia. Giocasta delle Fenicie, Etra nelle Supplici, Antigone, sono donne che divergono dagli schemi patriarcali e mostrano, agli ateniesi che andavano a teatro, come a noi oggi, le possibilità della potenza femminile. Le narrazioni alternative, le letture possibili del femminile, i percorsi di libertà che le donne possono compiere, oltre gli stereotipi prodotti dall’episteme fisiologico-politica, iniziano già all’epoca dello stabilizzarsi di quell’episteme, di quel sapere che invece vuole irrigidire la differenza sessuale in una gerarchia. Il libro di Giulia Sissa argutamente combatte, con sapienza e ironia, quell’irrigidimento, dando ampio spazio alle potenzialità alternative di narrazioni del femminile.

Agli antipodi di Aristotele c’è, infine, come argomenta la studiosa negli ultimi due capitoli del libro, la luce della modernità, accesa innanzitutto dal pensatore seicentesco Poullain de la Barre, che per primo prende sul serio l’uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani, insistendo sulla non naturalità di una inferiorità delle donne. Chi la predica è vittima del proprio pregiudizio – di uomo – o si ferma a semplici apparenze. Dopo di lui, un altro pensatore divergente è il marchese de Condorcet, che in epoca rivoluzionaria sostiene – isolato – la causa del diritto di cittadinanza alle donne, in virtù del fatto che non c’è in natura una inferiorità femminile. Si tratta, anche qui, solo di pregiudizio. Infatti, afferma Condorcet, i diritti scaturiscono esclusivamente dal fatto che gli esseri umani sono «esseri sensibili capaci di acquisire idee morali e ragionare su di esse». È solo frutto di pregiudizio affermare che le donne possano essere escluse da questa definizione universale, che siano incapaci di imparare, ragionare, decidere. La loro inferiorità non è per natura, ma è il prodotto di una specifica cultura, che le priva di adeguata educazione, come afferma, nello stesso periodo, Mary Wollstonecraft.

Insomma, solo poche voci maschili sostengono la causa delle donne, nella lunga storia della loro universale inferiorizzazione. Eppure, a esse – e all’apertura moderna che inaugurano – Sissa affida quella che lei chiama una «nota di ottimismo». Non ci sarà però speranza per il genere umano se la mascolinità non si sottoporrà a una demistificazione, uguale e contraria a quella che le donne hanno faticosamente intrapreso per sottrarsi alla presa invalidante della tradizione. È necessario, scrive Sissa, che anche il corpo maschile di cui Aristotele ci parla, «che si vuole onnipotente, quella virilità che crede che tutto sia permesso, quella soggettività per cui tutto dev’essere fattibile» venga messo in discussione. «Spostare lo sguardo critico su quel corpo vissuto al maschile non corrisponde a ciò che viene chiamato essenzialismo. Il corpo è una sfida, la si può raccogliere in modi diversi».

Olivia Guaraldo su “Alias – Il manifesto”, 10 settembre 2023 (noi l’abbiamo ripreso dal sito della Libreria delle donne di Milano, che ringraziamo! Andate regolarmente sul loro sito: ci sono sempre idee e articoli interessanti!)

Qui trovi il volume di Giulia Sissa Lerrore di Aristotele – Donne potenti, donne possibili, dai Greci a noi (Carocci editore «Sfere», pp. 375, euro 29,00)

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Simone Weil, la sua “Venezia salva” e la guerra in Ucraina

Simone Weil, la sua “Venezia salva” e la guerra in Ucraina

C’è una storia di un tempo passato che ci parla nel presente della guerra che da un anno infiamma l’Europa e di cui non si vede la fine. La racconta Simone Weil, una delle più grandi pensatrici del Novecento, nella sua tragedia Venezia salva, rimasta incompiuta, che lei scrisse nel 1940 a Vichy dove si era rifugiata con i genitori dopo l’entrata dei tedeschi a Parigi.

La storia narra che nel 1618 Bedmar, ambasciatore di Spagna a Venezia, ordì una congiura per dare Venezia al re di Spagna, allora signore di quasi tutta l’Italia. Egli affidò l’esecuzione del piano a Renaud, gentiluomo francese, e a Pierre, pirata provenzale, che sognavano “onori”, “dominio” e “possesso”.  Gran parte delle truppe mercenarie di guarnigione a Venezia e molti ufficiali, la maggior parte stranieri, al servizio di Venezia, furono coinvolti nella congiura, con promesse di denaro e onori. Il piano era di agire di sorpresa in piena notte, occupare la città, appiccare il fuoco in tutti i quartieri e uccidere tutti coloro che avrebbero tentato di resistere. La notte prescelta era quella della vigilia della Pentecoste. Accadde però che Jaffier, uno dei capi della congiura, la fece fallire denunciandola al Consiglio dei Dieci.

Saint-Réal, che aveva scritto la storia nel 1672, aveva interpretato il gesto di Jaffier come l’azione di un traditore, un vigliacco, un debole, da disprezzare secondo l’immaginario maschile che nella guerra accompagna l’eroe, il guerriero da onorare. «Valori» quali «nazione», «libertà», «democrazia”, «sicurezza nazionale», «difesa dei territori» utilizzati dagli uomini per giustificare le loro guerre «hanno come contenuto solo milioni di cadaveri, orfani, mutilati, disperazione e lacrime». Non ci sono guerre giuste, la guerra è sempre un crimine, è imperio della forza che distrugge, disumanizza, massacra, sradica chi scappa e uccide chi resta, è odio, foriero di nuovi conflitti e nuove guerre. Chi si rifiuta di combattere come gli obiettori di coscienza in Russia e in Ucraina, o le madri che impediscono ai figli di partire o di tornare al fronte, chi fugge o si nasconde per sottarsi alla proscrizione obbligatoria, non è che un vigliacco, un traditore.

È questo immaginario maschile che Jaffier abbandona divenendo per Simone «l’eroe perfetto», disprezzato, di cui il nostro tempo ha bisogno per cacciare la guerra dalla storia prima che una guerra nucleare, complici le donne di potere, cacci l’umanità dalla faccia della terra. Jaffier non si è mosso per tradire i suoi compagni, ma per pietà verso «la splendida città» che, ignara di quello che l’aspetta, le appare in tutta la sua «fragilità». Salvare una città, un paese, un popolo dalla catastrofe non è segno di resa o di debolezza ma di forza e di amore. La guerra in Ucraina non si è voluta evitare, anzi la si è preparata, non si è voluta fermare anzi è divenuta una guerra tra potenze nucleari. Scelta la strada della «resistenza», dell’invio di armi e delle sanzioni, a distanza di un anno non restano che città rase al suolo, milioni di profughi sradicati, centinaia di migliaia di morti di civili e di giovani costretti a combattere contro la loro volontà, legami familiari e parentali distrutti, un bene prezioso perduto per sempre. Non restano che macerie materiali e spirituali e un mondo che si arma per altre guerre e altri massacri. Nessuna pace è «vergognosa», nessuna condizione è inaccettabile per salvare una città, un paese, l’umanità. Ce lo insegna Simone Weil e la sua Venezia Salva.

Franca Fortunato su “Il Quotidiano del Sud”, 25 febbraio 2023 (noi l’abbiamo ripreso dal sito della Libreria delle donne di Milano, che ringraziamo! Andate regolarmente sul loro sito: ci sono sempre idee e articoli interessanti!)

Qui trovi il volume Venezia salva di Simone Weil

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