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Recensione: “Matria” di Laura Marchetti

Recensione: “Matria” di Laura Marchetti

Questa recensione al volume Matria di Laura Marchetti è scritta da Antonietta Lelario ed è apparsa sul Manifesto del 12 novembre 2021 con il titolo “La crisi non è mai neutra”.

Il discorso che fa risalire la crisi dell’occidente ai guasti del capitalismo senza riconoscere che quest’ultimo è figlio del patriarcato è un parlare inefficace e monco. Salta ciò che è essenziale per una critica radicale: il riconoscimento del sapere delle donne e della sua necessità. A partire da quel sapere si è aperta una profonda discussione su che cosa voglia dire sottrarsi alle misure date e ritrovare, invece, una misura nella vita. L’elaborazione femminile, sviluppatasi in questi anni, mostra bisogni e desideri che mettono in discussione l’esistente e aprono strade per tutti. Se non ci si confronta su questo e non si smascherano i meccanismi su cui si è retto l’ordine patriarcale, la risposta politica non potrà che essere povera simbolicamente e politicamente. All’elaborazione femminile dà un contributo Laura Marchetti con un piccolo ma prezioso libretto, Matria (ed. Marotta e Cafiero, pp. 86, euro 10) nel quale ricorda come la subordinazione della donna operata dal patriarcato sia il segno di un ordine del mondo che, separando corpo e anima, natura e spiritualità e gerarchizzando, strumentalizzando, desacralizzando la physis, ha giustificato ogni violenza.

L’autrice affronta da questa prospettiva il ruolo degli Stati Nazione e fa vedere come non siano in grado di affrontare la crisi economica, politica e istituzionale in atto perché anzi ne sono la causa. Sono infatti evidenti i rischi per l’umanità della logica concorrenziale che è alla base delle loro relazioni, la rapina e la spartizione a cui sottopongono i beni necessari come terra, acqua, risorse naturali. A questo contribuisce l’idea di patria con i suoi confini e i suoi muri, i suoi apparati di difesa e di sorveglianza interna che non sono stati scalfiti nemmeno dal processo di globalizzazione in corso. «La critica al razzismo e al colonialismo, l’ecologia, il femminismo, l’apertura e il dialogo con culture altre, hanno fatto ritrovare un paradigma alternativo» dice Laura Marchetti per il quale lei, ispirandosi ai fratelli Grimm, propone il termine Matria. La Matria rimette al centro la casa materna, una terra in cui risuonano le canzoni, i giochi, le fiabe raccontate dalle mamme, luogo di nutrimento dei legami affettivi e spirituali, spazio della memoria e dell’infanzia. Nella casa della madre, nella Matria appunto, e nelle fiabe, ha trovato rifugio durante il patriarcato un’idea di Natura come corpo vivo, per cui un albero ferito può dire ahi! ed essere ascoltato, dove gli animali ci parlano e chiunque può andare nel bosco a far legna.

Nelle fiabe la natura svela, con i suoi aspetti terribili, le nostre paure, ma ci permette anche di elaborare una visione del mondo che non le cancella. E dalla casa della madre questo sentimento è passato nella cultura popolare. Non a caso nella lingua comune si è continuato a dire «madre natura» conservando il carattere sacro e animato della Natura che la cultura ufficiale stava cancellando, riducendola a protesi meccanicistica dell’uomo. Marchetti mostra come questa prospettiva sia riconducibile a tutto un filone di sapere – vedi Walter Benjamin, Hannah Arendt, Edgar Morin, Carolyn Merchant – a cui lei vuole restituire forza perché vede in questa prospettiva una possibilità di incontro fra quanti vogliono ritrovare il senso della politica come philia. Fra le grandi questioni aperte dalle donne c’è quella della lingua, come mostra il saggio La lingua materna della comunità filosofica Diotima. L’autrice la riprende con riferimento alla lingualatte dei fratelli Grimm, «la lingua che ciascuno beve con amore, ricevendola, come il latte dalle carezze e dalla voce della madre», una sorta di «grembo materno della storia e della diversità linguistica». La scelta del neologismo Matria contribuisce al processo di risignificazione della madre fondamentale per il superamento del patriarcato: un processo politico ed esistenziale insieme, che genera la riconversione dal lamento alla gratitudine, dall’insignificanza simbolica della madre al suo essere fondamento di un altro ordine di senso, come mostra il saggio L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro e recentemente il film di Pedro Almodóvar: Madres paralelas. Laura Marchetti è stata attiva nel movimento dei Verdi, ha accettato di essere sottosegretaria all’Ambiente del governo Prodi nel 2006 e insegna all’Università, mostrando con la sua vita che una donna può stare dappertutto con indipendenza simbolica e con fedeltà alla storia delle donne.

Laura Marchetti è autrice di Matria, edizioni Marotta e Cafiero 2021. Maggiori informazioni sul volume.
Qui trovate un articolo di Laura Marchetti sul ruolo delle donne durante le guerre.

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Ecuba, interprete della Matria di Laura Marchetti

Ecuba, interprete della Matria di Laura Marchetti

Buongiorno Care e Cari lettori del blog de La Voce delle Muse. Oggi vi proponiamo una riflessione di Laura Marchetti, che riprendiamo dal sito (interessantissimo! Vi invitiamo a visitarlo) della LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO e pubblicato sul Manifesto del 3 maggio 2022.

La guerra di Troia Da Ecuba e da Andromaca così come da Antigone, dovremmo imparare, noi donne, una lezione. Dal grembo dobbiamo partorire figli che non possono essere uccisi. Nel XII Canto dell’Iliade c’è un passo che parla della guerra fra la Russia e l’Ucraina (pardon: della guerra fra la Russia, la Nato e in mezzo l’Ucraina). È la scena precedente la morte di Ettore. Sono passati dieci anni dall’assedio e Troia sta per capitolare. La vittoria da parte dei Greci aggressori è preannunciata. Ettore sta per affrontare l’ultimo duello contro Achille, un campione nelle armi, una macchina da guerra, creato dagli Dei per lo sterminio di massa. Ettore sa che da questo duello uscirà sconfitto, torturato, morto; ma anche lui è un Eroe, epicamente (ideologicamente) addestrato alla difesa della Patria. Non può tirarsi indietro.

Priamo ed Ecuba, il padre e la madre che già tanti dolori hanno visto, compresa la progressiva distruzione della loro bella e civile città, tentano di fermarlo, di dissuaderlo da quell’incontro sicuro con l’Ade. Ma tutto è inutile. Allora Ecuba disperata – perché non c’è nulla di più tremendo della morte di un figlio – fa un gesto estremo: scopre le poppe e gliele mostra dicendo: «Abbi pietà di queste!». Si affida cioè al seno, alla sua forza nutritrice e generatrice, per ricordargli che la vita deve essere sempre più forte della morte, che se né lei né la moglie Andromaca potranno più abbracciarlo, di lui non rimarrà nemmeno il ricordo. E neanche di Troia rimarrà più nulla: solo macerie e macerie e macerie.

Anche Andromaca si unisce alla supplica di Ecuba: fermati amore mio, gli dice. Fermati perché la tua patria non sono solo le mura. La patria non è un confine, un recinto. La patria sono le mie carezze, è nostro figlio che rimarrà solo, sono le tue sorelle e i tuoi fratelli, sono i tuoi amici. La patria è quella schiava, quel lavoratore. La patria è il tuo popolo che, senza di te, senza una guida, sarà trucidato e disperso. Ma Ettore è sordo: l’onore, la sfida di un maschio verso un altro maschio, viene prima di tutto. L’esito di questo spargimento d’onore sarà il suo corpo squartato.

Si scontrano in quel momento lontano di quasi 3000 anni fa due idee della convivenza e del futuro: l’una armata, militare, che intende la Patria come un territorio da espugnare o da mantenere senza bisogno di parole. L’altra, piena di parole d’amore, che intende la Patria come una Matria, una terra delle madri in cui a prevalere sono le parti materne, anche negli uomini, anche in Priamo che è un padre/madre. Una terra dove, alla violenza e alla forza distruttrice, si contrappone il dialogo e la forza generatrice.

Da Ecuba e da Andromaca, così come da Antigone, dovremmo imparare, noi donne, una lezione. Dal grembo dobbiamo partorire figli che non possono essere uccisi. Che non possono essere squartati e torturati. Il nostro impegno storico e civile è proteggerli, custodirli. Li abbiamo attesi e questa attesa deve ricostruire in senso affettivo la storia: una generazione dopo l’altra, intessuta l’una nell’altra dalle nostre ninne-nanne, dalle nostre fiabe, dalle canzoni, dai dolci ricordi d’infanzia. Per questo noi donne sempre, sempre, dobbiamo essere contro la guerra: si chiami invasione, resistenza, liberazione. Sempre dobbiamo mostrare il seno contro le armi. In questa guerra oscena però anche le donne si mettono l’elmetto e dicono ad Ettore di andare avanti verso il suo e il nostro disastro. Anche le donne indossano divise militari.

Anche raffinate intellettuali sono sedotte dal fascino dei campi di battaglia e dall’odore del nemico ucciso. Mettono così a rischio non solo le nostre vite, ma la Vita, l’Amore, la Voce che dice e canta: vieni, ragioniamo, facciamo pace. Mettono a rischio la genealogia della Natura custode e matrice. E allora che conta se le donne hanno raggiunto parità di cognome? Cosa conta se questa genealogia assume tutti i disvalori del patriarcato, a cominciare dalla guerra, dal razzismo di guerra, dall’odio di guerra? Che conta una discendenza anche femminile, se questa non è materna, ovvero alternativa e trasformativa. Non conta se, nel Nome della Madre, non c’è anche il gesto di Ecuba, la sua estrema supplica.

Laura Marchetti è autrice di Matria, edizioni Marotta e Cafiero 2021. Maggiori informazioni sul volume.
Qui trovate la recensione di Antonietta Lelario al volume.

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Il mito di Agamennone – La morte del re

Il mito di Agamennone – La morte del re

Il racconto del mito di Agamennone è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 27: Agamennone – Il re dei re.

Se non ricordi bene come mai Clitemnestra vuole vendicarsi di Agamennone leggi: Il mito di Agamennone – Tradimento della fiducia: Agamennone e Ifigenia

Se vuoi una panoramica completa della saga mitologica della famiglia di Agamennone ascolta la trasmissione con Andreas Barella Mitologia Express – Gli Atridi: una famiglia rosso sangue

Durante il viaggio di ritorno da Troia, Agamennone fu protetto da Era (o Latona), moglie di Zeus, che salvò la sua nave da una violenta tempesta, che invece aveva investito le navi dei principi greci e aveva spinto Menelao fino in Egitto.

Clitemnestra, la moglie di Agamennone, aveva precedentemente persuaso il marito ad accendere un falò sul monte Ida non appena avesse espugnato Troia. Una sentinella stava in piedi sul tetto del palazzo di Micene in attesa di scorgere quel fuoco; e quando lo vide, corse a comunicarlo a Clitemnestra. Questa indisse grandi festeggiamenti con ricchi sacrifici agli dèi, simulando riconoscenza e gioia; Egisto, cugino di Agamennone intanto, approntava il suo piano, mise uno degli uomini più fidati di guardia sulla torre presso il mare e gli promise una generosa ricompensa non appena gli avesse annunciato lo sbarco di Agamennone.

Dopo il viaggio fortunoso, Agamennone sbarcò in patria. Portava con sé, come parte del bottino e come sua concubina, la principessa Cassandra, sorella di Paride e sacerdotessa di Apollo, che aveva il dono della preveggenza ma anche la maledizione divina di non essere mai creduta. All’ingresso del palazzo ella ammonì il re di non entrare presagendo l’attentato, ancora una volta non fu creduta e il re non l’ascoltò.

Secondo Pindaro e i tragici greci, Agamennone venne ucciso con un lábrys (λάβρυς), mentre si trovava solo nel bagno. Su istigazione di Egisto, la moglie lo imbrigliò prima nella rete che gli aveva gettato addosso, poi lo colpì. Subito dopo, Clitemnestra si scagliò anche contro Cassandra e, con la stessa arma, la uccise. Il suo sordo rancore per il sacrificio di Ifigenia e la gelosia per Cassandra, avevano finalmente attuato la vendetta di Tieste, come era stato predetto dall’oracolo di Delfi.

ll mito di Agamennone, riassunto dalla versione di Robert Graves ne “I Miti Greci”. Un libro pubblicato da numerose case editrici e che vi consigliamo caldamente. Qua trovate la nostra recensione al volume di Graves

Il piano dell’opera “Grandi Miti Greci” e recensioni agli altri volumi.

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Recensione: Agamennone – Il re dei re

Recensione: Agamennone – Il re dei re

“Nessun altro portò a Troia tante navi come lui, tanti soldati e carri da guerra. Cento navi piene dei guerrieri più forti, scelti dalle molte città; Agamennone li guidava combattendo avvolto nella siua armatura di bronzo rilucente nel sole.” (Giulio Guidorizzi, Io, Agamennone)

Dal risvolto di copertina: “È famosa nell’immaginario comune la maschera funeraria in oro ritrovata a Micene e identificata come quella di Agamennone, ma cosa si nasconde dietro questo volto? Le origini del personaggio si perdono nel tempo: una stirpe maledetta, quella di Pelope, signore della città di Pisa, figlio di Tantalo e padre di Atreo avuto dalla moglie Ippodamia. Atreo, insieme al fratello Tieste, avrebbe poi ucciso il fratellastro Crisippo, un delitto che gli attirò l’ira paterna e la condanna all’esilio. Così i due fratelli si rifugiarono a Micenee successivamente ne assunsero il governo. Agamennone eredita il regno e la condanna. Eroe dell’Iliade, valoroso combattente del “poema della forma”, come lo definì Simone Weil, infine vincitore della guerra ma destinato a una morte violenta per mano della moglie Clitemnestra, che vendica così la morte della figlia Ifigenia da lui sacrificata per consentire la partenza della flotta greca verso Troia. Una vicenda complessa che, come molta della mitologia greca, è soprattutto lotta contro il destino.

Dall’introduzione di Giulio Guidorizzi: “Agamennone esprime, nei racconti, tutta la forza torva e grandiosa del mondo miceneo, rivelato dalle sue rovine: la porta dei leoni che segna l’ingresso in una cittadella possente, con mura fatte di enormi blocchi di pietra, un nido d’aquila in cui si percepisce il fascino di un’epoca grande e terribile. Il re dei re dipinge la cecità dei grandi: camminano come fossero onnipotenti, eppure dalla grandezza alla rovina il passo è brevissimo. Sembra che il destino di Agamennone, con l’ombra di potere funesto che si allarga sulla sua stirpe, sia quello di rappresentare appunto la grandezza e i limiti del potere, e insieme il ritmo inesorabile del destino che attende di compiersi su tutti, e nel modo più crudele, travolgendo gloria e grandezza.”

Oltre alla narrazione del mito, il volume contiene anche approfondimenti sulla sua fortuna nel corso dei secoli, in tutte le forme artistiche: letteratura (con una ricca antologia di testi classici sul mito), pittura, teatro, cinema. Inoltre vi è una tavola genealogica, e un ricco apparato bibliografico e sitografico. Il volume su Agamennone è curato da Caterina Barone, docente di Storia del teatro antico greco e latino e Drammaturgia antica presso l’Università degli studi di Padova. Qui i suoi ultimi volumi pubblicati.

L’intera collana di trenta volumi è a cura di Giulio Guidorizzi. Guidorizzi è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e antropologia del mondo antico. Ha scritto numerosi libri sulla mitologia. Noi vi consigliamo, per iniziare, il suo bellissimo Il mito greco (in due volumi, usciti nel 2009 e nel 2012). Qui una lista di suoi volumi sul mito greco.

Ascolta la trasmissione Mitologia Express – Gli Atridi: una famiglia rosso sangue
Il mito di Agamennone – Tradimento della fiducia: Agamennone e Ifigenia
Il racconto del mito di Agamennone – La morte del re
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Il mito di Ettore – L’addio ad Andromaca e Astianatte alle Porte Scee

Il mito di Ettore – L’addio ad Andromaca e Astianatte alle Porte Scee

Il racconto del mito di Ettore è collegato alla nostra recensione della collana “Grandi Miti Greci”, Volume 24: Ettore – L’eroe e la sua sposa.

Ettore si slanciò fuori di casa, giù verso le strade ben costruite. Passato attraverso la grande città, giunse alle porte Scee, da cui doveva incamminarsi verso il pianoro; qui la sposa dai ricchi doni a lui venne incontro, correndo, Andromaca figlia del magnanimo Eezìone, quell’Eezìone che abitava sotto il Placo boscoso a Tebe Ipoplacia, signore di genti cilice; e la sua figlia appartiene ad Ettore dall’elmo bronzeo. Gli andò incontro, con lei l’ancella con in braccio il bimbo, piccolo, dal cuore ingenuo, figlio prediletto di Ettore, una candida stella. Il padre lo chiamava Scamandrio, ma gli altri Astianatte, perché Ettore solo era il difensore dell’alta Troia. Sorrise Ettore nel vederlo, e tacque. Ma bagnata da un pianto dirotto Andromaca si accostò al marito, gli strinse la mano, e per nome con dolce dire, chiamandolo proruppe: «Sventurato, il tuo coraggio ti ucciderà! Nessuna pietà provi per il figlio, né per me, crudele, per me che vedova infelice resterò tra non molto, perché tutti raccolti insieme gli Achei contro te solo si scaglieranno per trucidarti; e a me sarebbe meglio, se mi sei tolto, andare sottoterra. Una volta priva di te, che altro può restarmi se non perpetuo pianto? Io sono orfana del padre, e della madre. Mi uccise il padre Achille spietato, il giorno in cui egli distrusse Tebe l’eccelsa popolosa città dei Cilici: il crudele mi uccise Eezìone. Ma non osò spogliarlo, preso nel cuore da un terrore divino. Quindi compose la sua salma sul rogo con tutte le armi, un tumulo gli alzò che le figlie dell’Egìoco Giove – Oreadi pietose – incoronarono di olmi. Di ben sette fratelli si gloriava, superba, la mia casa. In un solo giorno le loro anime furono sospinte all’Ade uccise da Achille, piede veloce, li trafisse accanto ai buoi dal cupo muggito, e alle candide pecore. Mi restava solo la madre regina della boscosa Ipoplaco. Il vincitore con ricco bottino la condusse qui, e poi dietro largo riscatto la pose in libertà. Ma questa pure, me sventurato, nelle paterne stanze fu trafitta dallo strale d’Artemide.

Or mi resti tu soltanto, Ettore caro: tu per me sei padre, madre, fratello, sei il mio fiorente sposo. Abbi dunque pietà di me e fermati qui con me, a questa torre né desiderare che sia vedova la consorte, orfano il figlio. Raduna i tuoi guerrieri presso il caprifico, dove il nemico scoprì un varco più diretto verso la città e agevole è lo scalare delle mura. O che quel varco l’abbia mostrato agli Achei un indovino, o che ve gli abbia spinti il proprio coraggio, ti basti questo: che qui i più forti già vennero tre volte, i migliori per coraggio, ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro sovrano di Creta ed il fatale figlio di Tidèo». Le rispose allora Ettore: «Dolce sposa, tutto ciò che hai detto affligge il mio pensiero; ma dei Troiani io temo fortemente l’offesa, e dell’altere donne troiane, se mi tenessi in disparte, ed evitassi lo scontro in battaglia, come guerriero codardo. Il mio cuore non consente di fare ciò. Già da molto tempo imparai a esser forte, sempre, e a primeggiare negli aspri combattimenti, procurando gloria a me stesso e al padre. Verrà un giorno, lo presagisco nel cuore, verrà un giorno in cui il sacro muro di Ilio, e Priamo, e tutta la sua gente cadrà. Ma né il dolore dei Troiani né quello d’Ecuba stessa, né del padre antico, né dei fratelli, che molti e valorosi distesi cadranno nella polvere sotto le spade nemiche, non mi affligge, o donna, nessuno di questi dolori quanto quello per il tuo destino crudele, se accadrà che qualche Acheo, magari con lo scudo ancora lordo di sangue, ti rapisca piangente in schiavitù. Sventurata, in Argo agli ordini supponenti di una straniera tesserai le tele; dalle fonti di Messíde o d’Iperéa (sprezzante, non volente, ma dal fato costretta), alla padrona superba recherai l’acqua. E vedendo qualcuno piovere il pianto dalle tue ciglia, dirà: “Quella è d’Ettore la nobile consorte, di quel prode Ettore che fra i Troiani domatori di cavalli era il  primo degli eroi quando si combatteva intorno a Ilio.” Così sarà detto da qualcuno; e allora tu di nuovo dolore con anima trafitta, più viva in petto sentirai la brama di tale marito a sciogliere le tue catene. Ma prima morto la terra mi ricopra, che io oda i tuoi lamenti pietosi, una volta fatta schiava». Dopo aver detto ciò, distese le braccia aperte al caro figlio, e acuto mandò un grido il bambino, e reclinato il volto, lo nascose nel seno della nutrice, spaventato dalle tremende armi del padre e dal cimiero che orribilmente ondeggia di crini di cavallo sulla sommità dell’elmo. Sorrise il padre, sorrise anche lei, la madre veneranda; e colmo di tenerezza, l’eroe subito si tolse l’elmo splendente dalla fronte, e lo pose in terra. Quindi, baciato con immenso affetto il figlio, palleggiatolo dolcemente tra le mani, lo alzò al cielo, e supplice esclamò: «Giove pietoso e voi tutti, o dei celesti, concedete che degno di me un giorno questo mio figlio sia lo splendore della patria, e diventi forte e potente sovrano dei Troiani. Vi prego: fate sì che qualcuno, vedendolo tornare dalla battaglia recando le crude armi dei nemici uccisi, dica: “Non fu così forte il padre!”; e il cuore della madre, nell’udirlo, esulti».

Così dicendo, pose il figlio in braccio all’amata sposa; ed ella lo raccolse nel seno profumato, sorridendo nel pianto. Addolorato nel cuore da struggente tenerezza, il marito si trattenne a guardarla, l’accarezzò con la mano, le disse: «Mia diletta, ti prego oltre misura: non rattristarti a causa mia. Nessuno mi spingerà da Plutone se il momento estremo non è ancora giunto. E nessuno al mondo, pusillanime o temerario, si sottrae al fato. Adesso torna a casa, dedicati ai tuoi lavori, alla spola, al fuso, e veglia sull’operato delle ancelle; e a noi, quanti nascemmo fra le mura di Ilio – e a me per primo – lascia i doveri della dura guerra». Finito di parlare, Ettore generoso raccolse l’elmo da terra, e la donna amata, silenziosa, riprese la via verso casa, guardandosi indietro, piangendo amaramente. Giunta alla casa di Ettore, trovò le ancelle, e le commosse al pianto. Compativano tutte Ettore, nonostante fosse ancora vivo, nella sua stessa casa, le donne addolorate, poiché prive della speranza di rivederlo reduce dalla battaglia, scampato dalle fiere mani dei forti Achei. (Libera traduzione dal Canto VI dell’Iliade di Omero) 

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